Dalla comunità alle community, una rivoluzione imposta.
Troll, fake news, hate speech, tutti fenomeni strettamente connessi che, attraverso l’utilizzo sempre più diffuso del digitale, seguito dall’avvento inaspettato della pandemia, hanno aggravato la diffusione della disinformazione e accentuato l’infodemia – vera e propria epidemia dell’informazione. L’Italia, a causa di soluzioni spesso poco lungimiranti nel contrastare gli “attacchi” che quotidianamente subisce, risulta un bersaglio ancora molto debole e influenzabile.
Durante i primi mesi di pandemia si assiste infatti a un vero e proprio primato della comunicazione sull’informazione, in cui le emozioni hanno la meglio, tanto da indebolire per poi distruggere il livello razionale dell’informazione.
Secondo il rapporto “Disinformazione e fake news durante la pandemia” svolto da Ital Communications e Censis, oltre 50 milioni di italiani – il 99,4% degli adulti – hanno cercato informazioni. Al primo posto, 38 milioni – pari al 75,5% del totale – hanno ottenuto informazioni dai media tradizionali, tra cui televisione, radio e stampa. Seguono poi i siti internet di fonte ufficiale – 26 milioni di italiani, ovvero il 51,8% del totale. Al terzo posto, 29,8% – 15 milioni circa – hanno consultato e/o utilizzato i social network, quali Facebook, Twitter e Instagram, mentre 5 milioni circa si sono affidati a siti internet non ufficiali. Infine, ben 29 milioni di utenti si sono imbattuti in notizie provenienti da web e social che poi si sono rivelate false o errate.
In una società che si evolve, la comunità, attraverso i mezzi di informazione e comunicazione, cede progressivamente il passo alle community. I confini non esistono più e parlare di cambiamento implica necessariamente ragionare su digitalizzazione e trasformazione tecnologica.
Di fronte a ciò anche l’opinione pubblica reagisce, chi più chi meno bene, secondo modalità differenti: dal soggetto completamente autonomo, attento e consapevole delle potenzialità dei mezzi a disposizione, a chi, disorientato, dimostra una certa difficoltà a tenere il passo.
Le determinanti sono molteplici – età, stile di vita – mentre le cause risultano sempre più connesse alla comunicazione, diffusa in maniera confusa, contrastante o poco rassicurante, se non addirittura errata, come recentemente accaduto in risposta all’emergenza pandemica da Covid-19.
In queste circostanze risulta perciò sempre più massiccia la diffusione di fake news, disinformazione e infodemia, quest’ultima traducibile in una vera e propria bulimia di informazioni, prive di ordine e significato profondo che rendono difficile per le persone trovare fonti affidabili quando ne hanno bisogno. Al contempo, appare sempre più difficoltoso recuperare ed accertare la veridicità delle informazioni attraverso le piattaforme social.
Accade sempre più di frequente che i social svolgano una funzione impropria, paragonabili a “sistemi chiusi” rispetto alla verità dei fatti. Attraverso il loro utilizzo distorto – secondo una logica di confirmation bias – il rischio si traduce nella diffusione di informazioni legate al mero convincimenti dell’utente, il cui agire si identifica in una sorta di difesa psicologica – ovvero metto in rete soltanto ciò che mi rassicura indipendentemente dalla veridicità della notizia.
A migliorare le circostanze non sono di certo i media tradizionali che sembrano vivere una situazione di trincea: non avere avviato un vero confronto con il mondo digitale ne è sicuramente una delle maggiori cause.
All’inizio del XX secolo il sociologo William Fielding Ogburn conia il concetto di “ritardo culturale”, ovvera la condizione per cui la cultura materiale – ad esempio la tecnologia – si trasforma più velocemente rispetto a quella non materiale – pensiamo alle modalità di governo e alle norme sociali. Nel momento in cui si verifica questo fenomeno, il nostro ambiente diventa ostile, disorientante capace di influenzare tanto la sfera pubblica quanto quella privata.
Walter J. Ong nel suo “Oralità e scrittura” parla di tecnologie come vere e proprie trasformazioni interiori della coscienza, soprattutto quando influiscono sul mondo e in particolar modo sulle nostre scelte.
Di conseguenza, risulta chiaro come, riuscire dare una risposta nel breve periodo a questo “ritardo” non sia di certo impresa facile e il tempo – o meglio il poco tempo – sembra una tra le variabili sfavorevoli più determinanti.
L’Italia però ha il dovere di reagire, con più forza e consapevolezza per accompagnare e guidare il cambiamento, e nel farlo, le Istituzioni giocano un ruolo fondamentale. A esse viene richiesto impegno, trasparenza e responsabilità, elementi necessari affinché si sviluppi un senso di fiducia e comunità da parte del cittadino, fondamentali in una società evoluta.
La comunicazione istituzionale per essere all’altezza e al passo di questo continuo e incessante cambiamento, deve integrare sempre di più l’utilizzo degli strumenti digitali; adottare un giusto linguaggio secondo il target di riferimento e il messaggio che vuole comunicare; manifestare tempestività e accuratezza contro la disinformazione ma prima ancora, fare prevenzione e sensibilizzazione verso il cittadino.
Inoltre, adottare un approccio maggiormente collaborativo e partecipativo le permetterebbe di assumere un ruolo ancora più decisivo nella lotta all’infodemia, alla disinformazione e alle fake news e al contempo fornirebbe al cittadino la possibilità di sviluppare maggiore senso critico e l’opportunità di avanzare suggerimenti.
Infine, e non per importanza, l’urgenza di apportare modifiche se non addirittura superare leggi ormai obsolete da parte del governo; mettere in campo nuovi investimenti sulle competenze, nonché riorganizzare il mondo del lavoro e puntare sulle giovani menti.
A pensarci bene parlare di cambiamento è dir poco: qui ci vorrebbe una rivoluzione! (continua… 2/3)
Laura Lizzi