Questa non è una previsione deterministica, ma un’analisi delle forze strutturali in campo nel prossimo futuro. Non esiste un argomento strutturale per cui, nel giro di alcuni anni, robot e sistemi di AI non dovrebbero sostituire la quasi totalità del lavoro umano, fisico e cognitivo: non è un problema tecnologico, perché le capacità arriveranno; non è un problema economico, perché i costi scenderanno; non è un problema logico, perché se una macchina può svolgere un compito meglio e a minor costo, il mercato non ha ragioni intrinseche per preferire l’umano. Anche la retorica dei nuovi lavori o di nuove abilità crolla su se stessa, perché se sono l’AI e i robot a rendere possibili quei lavori, non esiste alcuna ragione per cui non debbano svolgerli anche in seguito, trasformando ogni nuova occupazione in una fase transitoria destinata a essere automatizzata a sua volta. E anche esistessero delle abilità umane impossibili, anche tra qualche anno, per la AI come la creatività radicale, il giudizio etico, la cura autentica, quanto pesano nei numeri reali dell’occupazione? Anche se rimanessero interamente umani, non potrebbero assorbire miliardi di persone né sostenere una società fondata sul lavoro come meccanismo di distribuzione del reddito. Ci sono degli attriti reali e non sono ontologici ma materiali e politici: l’accesso a risorse primarie come energia, acqua e materiali critici, poi la fragilità delle supply chain globali, esposte a shock climatici, sanitari e bellici e la geopolitica tra Stati, che può rallentare, modulare o territorializzare l’automazione per ragioni di stabilità, consenso e sovranità. Ma questi fattori non salvano il lavoro umano: ne rendono solo la scomparsa diseguale nel tempo e nello spazio. Il risultato non è un limite strutturale all’automazione, ma una sua distribuzione asimmetrica, per blocchi geopolitici e per controllo delle infrastrutture. Il nodo vero, quindi, non è se il lavoro umano finirà, ma che l’intera architettura della modernità, reddito, status, senso sociale e cittadinanza è costruita sull’idea che l’essere umano debba essere economicamente necessario. E questa idea sta diventando falsa più rapidamente della nostra capacità istituzionale e politica di sostituirla.
Se il lavoro umano viene reso economicamente superfluo da robot e AI, il problema centrale non è la fine della produzione ma la destinazione del valore prodotto: la ricchezza non scompare, si concentra ancor più di oggi e il lavoro non è piu negoziabile. In un sistema in cui il valore totale va a chi possiede capitale, infrastrutture, modelli e filiere, la scomparsa del lavoro umano implica la scomparsa del salario come meccanismo di distribuzione del reddito e, con esso, della cittadinanza così come l’abbiamo conosciuta. Il salario non è un diritto naturale ma un dispositivo storico: se il tempo umano non serve più alla produzione, quel dispositivo perde funzione. La sopravvivenza degli esseri umani, allora, non può più dipendere dall’occupazione, ma solo da decisioni politiche sulla redistribuzione del valore prodotto da sistemi automatici: trasferimenti monetari, accesso garantito a beni e servizi, o combinazioni delle due cose. Le risposte correnti, reddito di base, assistenza statale, tecnocrazia redistributiva, assicurano la sopravvivenza biologica, ma non risolvono il nodo del potere, perché mantengono le persone come beneficiarie passive di un valore generato altrove. Una soluzione strutturalmente coerente è una ridefinizione della proprietà: partecipazione collettiva ai sistemi che producono valore, macchine, dati, infrastrutture intelligenti, perché senza leva economica non esiste cittadinanza reale. In assenza di questa trasformazione, l’automazione conduce o a oligarchie private o a Stati iper-tecnici; in entrambi i casi, individui senza lavoro diventano amministrati. In questo senso la domanda che cerco di farmi non è se gli esseri umani sopravviveranno, ma a quali condizioni, sotto quale potere e con quale grado di autonomia, quando il lavoro non sarà più il criterio di accesso alla vita.
In uno scenario di automazione radicale, il problema non è solo chi possiede il valore, ma chi controlla l’accesso materiale alla sopravvivenza. Se gli esseri umani non lavorano più, non “guadagnano” il cibo, l’energia, la casa: li ricevono. E riceverli non è un fatto neutro, ma una relazione di potere. Chi controlla le infrastrutture automatizzate, produzione agricola, logistica, energia, AI, decide quanto, a chi e a quali condizioni concedere l’accesso. Questo significa che la nutrizione, in senso letterale, diventa una funzione politica: non mercato, non scambio, ma allocazione amministrata. Non è una distopia fantascientifica: è il ritorno, in forma tecnicamente avanzata, di una struttura feudale, in cui la vita dipende dalla continuità della concessione. La differenza rispetto al passato è che il lavoro non è più neppure una leva di negoziazione: se non servi, non puoi scioperare, non puoi contrattare. La fine del lavoro non produce automaticamente libertà o abbondanza condivisa, ma apre la possibilità di una società in cui l’accesso alla vita è tecnicamente garantito e politicamente revocabile. La questione decisiva non è se gli umani mangeranno, ma se mangeranno per diritto o per tolleranza, e questa differenza separa una società post-lavoro da una società post-democratica.
Ovviamente un capitalismo di mercato ha bisogno di consumatori con potere d’acquisto e un’economia completamente automatizzata che non redistribuisce reddito collassa per mancanza di domanda. Tuttavia questo non costituisce un freno strutturale all’automazione, ma un vincolo alla concentrazione del valore senza redistribuzione. Storicamente, quando la domanda viene meno, il sistema non rinuncia alla produzione: cambia il meccanismo di distribuzione o restringe il perimetro di chi conta come mercato. Se il lavoro scompare, il reddito deve comunque circolare, non per equità, ma per tenere acceso il circuito economico. Ecco perchè il rischio non è che l’automazione totale venga bloccata, ma che si affermi una redistribuzione dall’alto, condizionata e amministrata, in cui il consumo non è più il risultato di un lavoro, ma una concessione necessaria alla sopravvivenza del sistema.
Il punto che cerco di non sottovalutare è il paradosso della transizione: il passaggio dall’economia fondata sul lavoro a quella automatizzata non è un atterraggio morbido, ma una fase lunga e instabile in cui coesistono disoccupazione di massa, redistribuzione insufficiente e un immaginario sociale che continua a legare dignità e reddito al lavoro. È proprio questa fase intermedia, che potrebbe durare decenni, a essere la più pericolosa, perché concentra frustrazione materiale, dissonanza culturale e vuoto politico, alimentando populismi, derive autoritarie e possibili collassi istituzionali. Nulla garantisce che si arrivi automaticamente a un dopo ordinato: la transizione stessa potrebbe essere così conflittuale da bloccare, deviare o frammentare il processo di automazione, producendo non una società post-lavoro, ma un lungo periodo di instabilità cronica.
C’è poi la questione geopolitica perché uno degli esiti più plausibili non è una transizione ordinata verso una società post-lavoro, ma una frammentazione geopolitica permanente. Alcuni grandi blocchi, Stati Uniti, Cina, India, Giappone e Korea e in maniera minore tanto da rientrare nel secondo gruppo, l’Unione Europea, accelerano l’automazione e sperimentano forme diverse di redistribuzione amministrata del reddito, mentre vaste aree del mondo restano intrappolate in economie ibride, dove lavoro umano sottopagato e automazione parziale convivono senza mai trasformarsi davvero. Queste zone diventano riserve di manodopera a basso costo e serbatoi di instabilità, alimentando migrazioni di massa verso i poli automatizzati, che a loro volta reagiscono con chiusure, fortificazioni e controllo selettivo dell’accesso. E’ quello che sta già decidendo la politica Trump. Il risultato non è una soluzione globale, ma la coesistenza caotica di sistemi incompatibili: isole di abbondanza automatizzata protette da confini rigidi e periferie in collasso cronico. Uno scenario che non è uniformemente post-lavoro né post-democratico, ma asimmetricamente distopico, in cui l’automazione non elimina il conflitto: lo ridistribuisce su scala planetaria.
C’è poi un punto di partenza semplice: il progresso non si ferma e non sarebbe né possibile né desiderabile fermarlo. Ma proprio perché la storia non è lineare, non esiste un’unica soluzione finale, bensì una serie di scelte strutturali che possono deviare la traiettoria. Le proposte realistiche non sono utopie pacificate, ma strumenti di contenimento del caos.
La prima conclusione è che l’automazione va separata dall’idea di inevitabile concentrazione del potere. Non serve rallentare la tecnologia, serve cambiare chi possiede e governa le infrastrutture: AI, dati, energia, logistica. Senza una qualche forma di proprietà collettiva o pubblica-federata, ogni redistribuzione sarà assistenziale e revocabile.
La seconda è che il reddito deve sganciarsi dal lavoro prima che il lavoro scompaia del tutto. Non come premio morale, ma come infrastruttura di stabilità sistemica. Non farlo significa attraversare la transizione con disoccupazione di massa, aspettative sociali obsolete e istituzioni delegittimate: la combinazione storicamente più esplosiva.
La terza è che la transizione va governata per fasi, accettando che sarà diseguale e conflittuale. Servono strumenti adattivi: sperimentazioni territoriali, modelli ibridi, redistribuzioni progressive, diritto all’accesso a beni essenziali. Pensare a una soluzione uniforme globale è una fantasia: la storia reale produce mosaici instabili, non equilibri eleganti.
La quarta, più scomoda, è che la democrazia va rifondata su basi non lavoristiche. Se cittadinanza, dignità e partecipazione restano legate alla prestazione economica, la società post-lavoro scivola inevitabilmente verso l’amministrazione delle popolazioni. Il problema non è l’abbondanza automatizzata, ma chi decide e con quali contropoteri.
Non si tratta di fermare il progresso, ma di evitare che i suoi salti non lineari producano collassi irreversibili. La storia non promette un esito giusto; promette solo che le strutture che non vengono adattate vengono travolte. La domanda credo non è se l’automazione arriverà, ma se arriverà prima o dopo che abbiamo ricostruito istituzioni capaci di reggere un mondo in cui il lavoro e il capitale non è più il centro dell’ordine sociale.
Immagine: Francisco Goya, Saturno che divora i suoi figli (1819–1823). Non c’è progresso, c’è sopravvivenza del potere Saturno non è il male: è il potere che divora ciò che ha prodotto per continuare a esistere. Esattamente come un sistema economico che, reso inefficiente il lavoro umano, consuma i propri soggetti.