Che interrogativi si deve porre il mondo cristiano oggi mentre l’intelligenza artificiale entra prepotentemente, come ha già fatto in altri settori della sfera pubblica, nella religione?
A Kyoto nel tempio buddista di Kodaiji da qualche mese il sacerdote Mindar recita il sermone Sutra. Il sacerdote Mindar è fatto di silicone e alluminio, è un robot da circa un milione di dollari. Per ora non è intelligente, nel senso che ripete sermoni e recita frasi preimpostate. Ma la speranza del rettore del tempio è quella presto di poter inserire piccoli semi di AI.
In India un robot tutti i giorni esegue in un tempio indù il rito dell’Aarti mentre in Germania in una chiesa protestante il robot BlessU-2 ha benedetto più di 10 mila fedeli. Il robot Pepper sempre in Giappone da molti anni, celebra riti funebri per le persone che non possono permettersi di pagare un prete umano. In Cina, nel monastero di Longquan a Pechino, un monaco androide di nome Xian’er recita mantra buddisti e offre parole di fede.
Poi c’è SanTO (Sanctified Theomorphic Operator) un robottino ricoperto di figure di santi cattolici. Davanti a una tua domanda preoccupata o al tuo viso infelice risponde, grazie a algoritmi intelligenti, pescando una frase appropriata nel database dei Vangeli.
Perchè stiano proliferando queste prime forme di robot con o senza intelligenza artificiale è una domanda e non bastano certo i motivi economici o di ricerca di nuovi fedeli per rispondere. Le religioni orientali, metafisicamente non dualistiche (sacro e profano) riconoscono che qualsiasi cosa abbia la natura intrinseca del Buddha può diventare illuminato e sono cosi più predisposte di quelle monoteiste a accogliere robot e AI. L’Europa umanista tende culturalmente a avere timore della tecnologia, e non è un caso che dalla sua comunità sia uscito poco o niente tra digitale e AI. Ma la paura dell’Europa verso la AI è una grande opportunità (vedi il GDPR) per iniziare a interrogarci e preparare metodi e comportamenti. Come la AI cambierà la nostra esperienza religiosa? Come gestiranno gli algoritmi gli interrogativi etici dell’uomo? Un prete robot cattolico, neutrale ne maschio ne femmina, potrebbe essere migliore di un prete in carne e d’ossa? La AI diventerà, se non lo è già, oggetto di culto? (esistono già alcune chiese con migliaia di fedeli che adorano AI e algoritmi).
C’è molto lavoro da fare ma la storia del cristianesimo ci aiuta; le Sacre Scritture e i valori custoditi e spesso dimenticati come la relazione, la ricerca della verità, la misericordia. La ricerca sull’intelligenza artificiale dovrebbe partire anche da queste basi. Non ci servono algoritmi onniscienti che non sono mai neutri e che non riconoscono il limite dell’uomo; cosi come non ci servono ricercatori transumanisti. Andare oltre il limite e la condizione umana, verso una conoscenza post umana non ci interessa.
“Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dall’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perchè nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire” (Gen 2,16-17).
Se la verità assoluta sta nel giardino dell’Eden, i primogenitori mangiando il frutto dell’albero della conoscenza decidono di intraprendere un percorso di ricerca di conoscenza morale e di consapevolezza dell’identità di essere uomo e donna, lontano anche dalla verità assoluta. Uscire dall’Eden significa iniziare a essere ricercatori della verità e impegnarsi in una scelta etica. Una scelta quella di poter peccare che è una grande assunzione di responsabilità dei propri comportamenti morali e del libero arbitrio. E è grazie a una donna, a Eva che inizia… “un cammino esistenziale che porta alla sapienza e alla lìbertà spirituale di se stessi nel mondo superiore dell’intelligenza.” (Erminio Gius, Compassione).
L’intelligenza così diventa libera e il so di non sapere impegna l’uomo e la donna a una ricerca continua e soprattutto inquieta (avremo mai un’intelligenza artificiale inquieta
?) perché la conoscenza deve essere riconquistata ogni giorno senza mai fine. Cogliere e mangiare il frutto dell’albero definisce il desiderio di conoscenza dell’uomo che è infinito se riconosce il limite e la finitezza umana. Ma non riconoscere la vulnerabilità dell’uomo o almeno cercare di eliminarla è pericoloso.
La tecnologia digitale, tutta, può migliorare le condizioni dell’uomo se non va oltre la condizione dell’uomo. Se va oltre lo annienta perdendo anche lo scopo per cui è stata prodotta che è quello appunto di migliorare le condizioni dell’uomo. Il mondo digitale che abitiamo è quello delle decisioni prese e già date e queste decisioni per ora non riconoscono l’uomo come vulnerabile anzi cercano di eliminare queste caratteristica. Ma così facendo lo rendono disumano. Cosa sarebbe l’uomo senza la sua vulnerabilità. La vulnerabilità ci permette di riconoscere l’altro, il diverso, la relazione, per prenderci cura l’uno dell’altro. Senza la vulnerabilità l’uomo sarebbe un’altra cosa.