Leggo adesso che Amazon comunica il licenziamento di 14.000 persone. Lo fa con una padronanza retorica fantastica, quasi fosse un esercizio di stile. Non una dichiarazione d’emergenza, non un’ammissione di fallimento, ma una raffinata coreografia lessicale che riesce a trasformare un evento traumatico in un gesto strategico, accompagnato da formule di cura e di attenzione verso i dipendenti coinvolti. Al di là dell’eleganza formale e della cura comunicativa, il messaggio è pragmatico nella sua essenza: l’intelligenza artificiale sta sostituendo migliaia di lavoratori. Non c’è alcun riferimento a crisi di mercato, né a cali di fatturato. L’unica motivazione reale è che questa nuova generazione di AI rappresenta la più grande trasformazione tecnologica dai tempi di Internet, e che proprio per questo alcune funzioni umane non sono più necessarie. Il licenziamento, dunque, non è un effetto collaterale o un danno imprevisto, ma l’esito previsto e perseguito di un cambio di paradigma produttivo.
Chi continua a ripetere che l’intelligenza artificiale non toglie lavoro, ma semplicemente cambia le mansioni, dovrebbe leggere con attenzione questa dichiarazione e le cronache ormai quotidiane delle altre big tech, degli scioperi dei rider o dei taxisti in Cina sostituiti da robotaxi e droni e di molto altro. Amazon non lo nasconde, anzi: rivendica il passaggio a una fase in cui i processi si snelliscono, i livelli organizzativi si riducono e alcune mansioni vengono del tutto eliminate, senza alcuna ipocrisia. E se da un lato c’è da riconoscere all’azienda la trasparenza e la coerenza della propria strategia, dall’altro bisogna porsi una domanda più ampia, e profondamente politica: che cosa succede alle persone che vengono superate da questa trasformazione?
La parte più interessante, almeno per chi guarda al futuro del lavoro e del welfare, è che Amazon non si limita a licenziare, ma si assume anche, almeno parzialmente, il ruolo di accompagnare l’uscita, di gestire la transizione, di garantire un minimo di continuità e aiuto. Offrono novanta giorni per trovare un nuovo ruolo interno, supporto per la ricollocazione, indennità, assistenza sanitaria e servizi di orientamento. È un pacchetto che, a suo modo, ricalca le funzioni che un tempo spettavano agli Stati moderni: protezione sociale, diritto alla formazione, continuità reddituale. La risposta del perchè Amazon lo faccia, lo lascio a chi legge.
Ma per me il punto non è se l’AI distruggerà posti di lavoro, perché lo sta già facendo, e continuerà a farlo, ma se esiste una visione pubblica capace di gestire questa trasformazione con strumenti all’altezza. Se oggi vengo sostituito da un sistema intelligente, non chiedo che la macchina venga spenta, né che si finga che nulla sia cambiato. Se poi occupa compiti ripetitivi, faticosi, massacranti, pericolosi e noiosi ancor meglio. Chiedo piuttosto che vi sia un modello in cui la mia competenza venga accompagnata verso una nuova forma, che io possa apprendere, riqualificarmi, rientrare nel processo con nuovi strumenti. E nel tempo necessario a questa metamorfosi, che sarà sempre più frequente e strutturale, ho diritto a un reddito, a una dignità, a una protezione che non siano lasciate alla buona volontà di un’azienda privata.
In un sistema maturo, il ciclo dovrebbe essere questo: lavoro, vengo sostituito da un’AI, mi formo, rientro, e poi, quando accadrà di nuovo, ricomincio. Non si tratta di garantire l’immutabilità del lavoro, ma la sostenibilità del cambiamento. Oggi, però, tutto questo è assente dall’agenda politica, sia in Italia che in Europa. Non esistono strumenti pubblici adeguati a questa nuova ecologia del lavoro. Non esistono politiche strutturali che colleghino automazione, formazione continua e reddito dignitoso. Ci si affida, quando va bene, all’iniziativa delle grandi imprese; quando va male, si lascia semplicemente cadere chi è stato superato.
Ecco perché quella lettera di Amazon, così elegante e così lucida, è anche un atto di accusa implicita. Non contro i lavoratori, ma contro le istituzioni che avrebbero dovuto, da anni, costruire un modello di transizione all’altezza delle trasformazioni in corso. Se oggi una multinazionale si prende cura, anche solo in parte, dei propri licenziati, è perché nessuno Stato, nessuna istituzione, nessuna politica, nessuna comunità si è preso la responsabilità di farlo.
Immagine: aboutamazon.com