Un’ amica mi chiama e mi dice che per caso lo smartphone le propone l’ascolto del mio podcast, che non conosceva, mentre guida. Lo ha ricevuto come suggerimento, senza averlo cercato. Il giorno stesso al mattino ci eravamo incontrati, i telefoni si incrociano per qualche minuto, vengono scambiati messaggi, forse una chiamata. È facile pensare al caso, a una coincidenza tanto improbabile da sembrare significativa, oppure, all’opposto, si è tentati di evocare l’idea che i dispositivi abbiano ascoltato, spiato, intercettato qualcosa. La verità si colloca altrove, in una zona opaca in cui la profilazione algoritmica supera la soglia del visibile, ma non si affida all’occulto. È precisamente in questa ambiguità che si gioca la partita della contemporaneità digitale.
L’apparente casualità con cui contenuti, prodotti o idee affiorano all’interno dei flussi digitali non è né casuale né intenzionale. È il risultato di una modellizzazione probabilistica sempre più fine dei comportamenti, degli ambienti, delle reti relazionali. Gli algoritmi di raccomandazione non sono progettati per trovare ciò che si cerca, ma per intercettare ciò che, in base a una molteplicità di segnali, si è pronti ad accettare. In questo senso, l’algoritmo non suggerisce: espone, con apparente neutralità, ciò che ha già riconfigurato come plausibile.
Nel caso di un contenuto audio, la combinazione tra prossimità fisica dei dispositivi, contatti condivisi, cronologie di ascolto analoghe, geolocalizzazioni sovrapposte, accessi a reti Wi-Fi comuni e sincronie temporali nelle interazioni è più che sufficiente per far emergere, in modo non esplicitamente richiesto, ciò che si è manifestato nelle vicinanze del soggetto profilato. Non è necessario che il contenuto venga nominato, ricercato o inviato. È sufficiente che esista una correlazione tra soggetti all’interno di uno stesso grafo relazionale e che uno di essi abbia prodotto, ascoltato o condiviso un contenuto perché questo venga proposto agli altri come nuova scoperta, come manifestazione spontanea del sistema.
È qui che si manifesta una delle illusioni più sofisticate del paradigma digitale contemporaneo: la costruzione artificiale della serendipità. Nulla avviene “per caso” nel contesto delle piattaforme, eppure tutto è presentato come se fosse emerso in maniera organica, imprevista, sincronica. In realtà, ogni suggerimento è il prodotto di una rete di inferenze bayesiane che aggiornano costantemente le probabilità di gradimento in base a comportamenti aggregati, prossimità temporali, affinità comportamentali, segnali biometrici impliciti, e micro-dinamiche di attenzione.
L’intelligenza artificiale che presiede a questi sistemi non si fonda su un’intelligenza semantica, ma su un’intelligenza relazionale: non comprende il significato dei contenuti, ma la configurazione dei rapporti entro cui questi si muovono. È un sistema che non sa perché qualcosa potrebbe interessare, ma è in grado di prevedere con margine crescente se e quando accadrà.
Dal punto di vista tecnico, le raccomandazioni sono gestite da architetture di tipo deep learning, basate su reti neurali artificiali multi-layer che incorporano tecniche di embedding semantico e comportamentale, graph neural networks, e modelli sequenziali di tipo transformer. A questi si aggiunge l’uso massivo di segnali contestuali: ID dei dispositivi, movimenti registrati dagli accelerometri, beacon BLE, fingerprinting del browser, metadati di immagini e contenuti multimediali. Tutti questi elementi contribuiscono a costruire una mappa densa e dinamica degli ambienti digitali attraversati dai soggetti, una mappa che non rappresenta, ma prefigura.
A questi livelli, l’analisi si spinge fino all’elaborazione di dati biometrici passivi: pattern di digitazione, movimenti oculari, velocità di lettura, angoli di inclinazione del dispositivo, reattività muscolare. Il corpo stesso, nella sua versione algoritmicamente leggibile, viene incorporato nei modelli predittivi, rendendo sempre più sfumata la distinzione tra comportamento e intenzione.
Tutto questo si iscrive in una logica economica ben precisa: l’economia dell’attenzione. Un paradigma in cui l’oggetto della competizione non è più il contenuto, ma la quota temporale di coscienza disponibile dell’utente. Ogni secondo di attenzione catturata è un valore economico monetizzabile, ogni interazione un segnale di disponibilità a essere ulteriormente guidati. E così, il sistema produce contenuti che non sono pensati per informare o per arricchire, ma per trattenere. In quest’ottica, la serendipità algoritmica non è che una forma raffinata di persuasione, travestita da scoperta.
Ciò che sfugge spesso a questa lettura è che non è l’individuo in sé a essere rilevante, ma la sua posizione all’interno di un grafo: la sua connessione con altri nodi, la sua prossimità a eventi, contenuti, segnali comportamentali. L’algoritmo non tratta il soggetto come portatore di un’identità, ma come vettore di probabilità.
In questo scenario, parlare di privacy è insufficiente. Bisognerebbe parlare di ecologia dei segnali, di qualità della presenza, di architettura delle relazioni digitali. In assenza di una coscienza di questo tipo, anche la resistenza si dissolve: non basta non parlare, non cercare, non cliccare. Si è comunque immersi in una struttura che deduce prima che tu decida.
Ed è per questo che la posta in gioco non è tanto il contenuto visibile di ciò che ci viene suggerito, ma la logica invisibile che governa il suggerimento stesso. Una logica che riorienta, silenziosamente, la soglia della nostra attenzione, e dunque della realtà che riconosciamo come tale.
In un sistema che anticipa il desiderio, l’autonomia non consiste più nel decidere cosa cercare, ma nel comprendere da dove nasce ciò che ci viene incontro. Il problema non è l’algoritmo in sé, ma l’infrastruttura epistemologica e di potere che lo sostiene: un mondo in cui la conoscenza non si produce per comprensione, ma per correlazione, e in cui la prossimità ai dati sostituisce la prossimità alle cose. Recuperare uno spazio di libertà significa allora imparare a leggere i suggerimenti non come specchi del nostro gusto, ma come indizi della nostra posizione in una rete che ci precede e ci supera. Non per negarla, ma per abitarla con maggiore consapevolezza. Perché ciò che oggi ci appare come spontaneità, è spesso solo la forma più elegante del controllo.
Immagine: René Magritte – La condition humaine (1933). Una finestra con un paesaggio che potrebbe essere vero o dipinto: la tela sul cavalletto sembra proseguire il paesaggio dietro, ma non sai più dove finisce la rappresentazione e dove inizia la realtà.