Non è di virtù che oggi si parla, ma di efficienza, prestazione, metriche. Eppure è proprio da lì che bisogna ripartire, se vogliamo trovare un linguaggio per pensare le tecnologie che stanno ridisegnando il senso stesso del vivere comune. In Dopo la virtù, Alasdair MacIntyre, è bene ricordarlo nei giorni della sua scomparsa, ha descritto con precisione ciò che accade quando una società perde la memoria delle sue pratiche condivise: il linguaggio morale si svuota, le istituzioni diventano meccanismi funzionali e la scelta etica si riduce a calcolo. A quel punto, ciò che resta non è una pluralità di visioni del bene, ma un conflitto di preferenze private gestito da tecnologie impersonali.
Alasdair MacIntyre è stato uno dei filosofi morali più rilevanti del secondo Novecento. Dopo un iniziale percorso nel marxismo critico, ha elaborato un pensiero originale che ha riportato al centro l’etica delle virtù come pratica collettiva, legata alla tradizione, alla narrazione e alla comunità. Ha sfidato tanto l’individualismo liberale quanto la razionalità burocratica, proponendo una visione etico-politica fondata su beni comuni, tempo lungo e forme di vita condivise.
Il cuore della sua proposta era radicale nella semplicità: una virtù non è una proprietà dell’individuo, ma l’esito di una pratica collettiva dotata di fini interni, una forma di cooperazione che genera beni non riducibili all’utile. Ogni pratica virtuosa, per esistere, richiede una comunità che ne condivida gli scopi, ne riconosca gli standard e la inserisca in una narrazione viva. Questo vale per il diritto, per la medicina, per l’insegnamento, e dovrebbe valere anche per la tecnologia. Un’intelligenza artificiale che non nasce dentro una pratica, ma viene imposta come soluzione tecnica esterna, è strutturalmente incapace di generare virtù, perché non risponde a nessuna finalità condivisa e non è radicata in alcuna comunità. Una tecnologia che non è praticabile — nel senso pieno del termine — è destinata a diventare solo una forma di potere.
Una pratica è una forma di attività umana cooperativa e socialmente stabilita attraverso la quale si cercano di ottenere quei beni interni la cui realizzazione è possibile proprio attraverso la partecipazione a quella forma di attività e secondo i suoi standard di eccellenza.
E allora la questione decisiva oggi non è se l’intelligenza artificiale sarà buona o cattiva, se supererà o meno l’intelligenza umana, ma cosa e come deve essere. La condizione è chiara: serve una comunità che la governi, che la comprenda, che la usi e la modifichi secondo fini collettivi. Non si tratta solo di localizzare l’infrastruttura tecnica, ma di restituire alla comunità la capacità di decidere come, perché e per chi quella intelligenza viene prodotta. Ed è qui che il discorso etico si incrocia con quello politico ed economico: senza proprietà collettiva dei dati, senza strumenti di controllo civico dell’algoritmo, senza coalizioni territoriali che trasformano l’AI da servizio calato dall’alto a pratica comune, la virtù non è possibile. Perché non si dà pratica senza controllo sui mezzi della pratica stessa. E tutto questo per ora non c’è. Il potere di troppi pochi decide sull’intelligenza artificiale.
Ci sono esperienze che già si muovono in questa direzione: comunità energetiche che producono anche dati, fondazioni civiche che progettano infrastrutture digitali cooperative, consorzi di comuni montani che condividono architetture tecniche per mantenere autonomia decisionale, iniziative che connettono sapere tecnico e cultura del territorio. Non sono modelli perfetti, ma sono in cammino. E forse è proprio questo che MacIntyre intendeva quando scriveva che l’etica ha bisogno di un nuovo San Benedetto: non una figura carismatica, ma una trama di luoghi e pratiche in cui la comunità si ricompone attorno a ciò che sa e che decide di custodire.
Rileggere MacIntyre oggi, in un’epoca in cui il potere cognitivo è concentrato in architetture chiuse, non significa tornare indietro, ma andare a fondo. Significa capire che senza una narrazione comune sul senso della tecnica, ogni innovazione sarà solo una forma più sofisticata di dominazione. E che solo le comunità che curano i propri dati come beni comuni, che sviluppano intelligenza collettiva e relazionale, che si danno strumenti per deliberare anche tecnicamente, potranno trasformare l’intelligenza artificiale in un’esperienza virtuosa, non perché moralmente buona, ma perché legata a fini condivisi e pratiche vive.
Immagine: Piero della Francesca, Battesimo di Cristo, dipinto di datazione incerta (1440-1450), conservato alla National Gallery di Londra. La comunità è presente, silenziosa, partecipe, come nelle pratiche virtuose di cui parla MacIntyre. L’armonia tra corpo, territorio e trascendenza evoca una relazione non estrattiva con il sapere. È una pittura che mostra l’intelligenza come forma incarnata, non astratta. Proprio come dovrebbe essere una AI costruita e custodita dalla comunità.