Figure, l’azienda del miliardario Brett Adcock e tra le società di robotica più innovative del pianeta, ha pubblicato poche ore fa un nuovo video: protagonista Helix, il suo umanoide di punta, intento a smistare pacchi con una precisione silenziosa e meccanica e qualche errore umano. Il video dura poco più di un’ora. Una scelta precisa, non casuale: non è un trailer, non è marketing, è una dichiarazione.
Helix non fa nulla di spettacolare. Non corre, non salta, non danza. Piega il busto, afferra, ruota, sistema. In loop. Per sessanta minuti. Ma chi guarda non può sottrarsi a un disagio crescente. L’alienazione che Chaplin aveva dipinto in Tempi moderni si rovescia: non è più l’uomo a essere svuotato da una catena di montaggio, è il robot che la incarna perfettamente. Eppure, lo straniamento non è suo. È nostro. È di chi guarda. Perché Helix non prova fatica, non protesta, non si distrae. Non ha sindacati. Non ha biografia. Non si ammala. Non rivendica nulla. Ma lavora.
Quell’ora di video è una performance: serve a dimostrare non tanto l’efficienza tecnica, che pure c’è, ma qualcosa di più politico. La robotica umanoide ha oltrepassato la soglia simbolica: Helix non è una promessa, è una minaccia già funzionante. Un avvertimento a chi ancora si ostina a credere che queste macchine non sostituiranno il lavoro umano, che c’è tempo, che “qualcosa verrà”, magari qualche nuova politica attiva del lavoro, una conversione green, un’educazione alle soft skill.
Ma la verità è più dura: chi guarderà Helix per un’ora capirà che nulla di tutto questo è all’orizzonte. Non c’è accompagnamento. Non c’è piano. Non c’è alternativa. Solo l’illusione che si possa resistere, mentre la macchina non smette mai di smistare pacchi.
È una dimostrazione di forza. Mostrare un robot che lavora per un’ora, senza cedimenti, senza esitazioni, significa certificare pubblicamente la sua autonomia operativa. Non è più prototipo da fiera. È pronto per la linea. Il messaggio è chiaro: Helix può sostituire esseri umani nei compiti più faticosi, più ripetitivi, più mentali. E può farlo per ore, per giorni, per sempre.
Eppure continuo a credere che Helix potrebbe essere un’occasione, non una condanna. Perché nessun essere umano dovrebbe passare decine di ore a piegare la schiena su una catena di smistamento. Ma perché questo diventi un’opportunità, per liberare tempo, creatività, desiderio di fare altro e meglio, servirebbe una politica che non si limiti a osservare la sostituzione, ma la governi. Che accompagni la transizione, che formi, orienti, redistribuisca senso e competenze. Senza questo, la libertà promessa dall’automazione resta solo un’illusione: la macchina lavora, l’uomo si spegne.
Nel gesto seriale di smistare un pacco non c’è nulla apparentemente di complicato. Ma proprio questo lo rende potente: è il lavoro stesso a essere svuotato di ogni dignità. E il robot, che ne sopporta il peso senza logorarsi, diventa il corpo ideale del capitalismo digitale. Il video non è noioso per caso. È alienante per progetto. Serve a noi, per capire cosa perderemo. E cosa non tornerà più.
E mentre Helix smista pacchi con più coerenza dell’intera classe dirigente mondiale, la politica resta ferma, incapace di immaginare un domani per chi verrà sostituito. Nessuna politica del lavoro e di una nuova formazione dei lavoratori che resteranno senza stipendio. Nessuna riforma della scuola e dell’educazione per aiutarci a capire come stare in questa nuova epoca. Mentre i media si consumano nel gossip algoritmico tra Musk e Trump, come se la vera posta in gioco fosse il carattere dei miliardari e non la fine lenta ma certa delle democrazie. Intanto il capitalismo digitale si allunga sui territori come un’ombra crescente: non chiede permesso, non firma trattati, non cerca consenso. Agisce e cancella. Questa tecnologia non è l’utopia. È il presente. Un presente così efficiente da togliere il fiato a chi ha ancora bisogno di lavorare.