Musk contro Trump? c’è molto di più.

C’è chi interpreta la rottura tra Musk e Trump come l’ennesimo episodio di una politica americana sempre più spettacolarizzata, una lite tra archetipi della destra, quella libertaria, affamata di deregulation, e quella populista, attenta ai consensi delle classi medie impoverite, da cui trarre, forse con eccessiva fretta, la conclusione che la cosiddetta “tecno-destra” sia uscita sconfitta, mentre lo Stato, con i suoi strumenti normativi e il suo reticolo di mediazioni, avrebbe riconquistato un ruolo centrale.

Ma questo tipo di analisi, radicata in una geopolitica tradizionale e rassicurante, appare oggi del tutto inadeguata a leggere ciò che sta davvero accadendo. Non siamo di fronte a uno scontro tra figure individuali, per quanto mediaticamente sovraesposte, ma a un conflitto strutturale tra due forme del potere: da un lato, quello territoriale, giuridico e istituzionale degli Stati; dall’altro, quello infrastrutturale, metaterritoriale e algoritmico delle piattaforme digitali.

Elon Musk, esattamente come Google, Meta, Amazon o Apple, OpenAI e tutti gli altri  non rappresenta più soltanto un’impresa tecnologica o una visione economica, ma incarna una forma di sovranità che si esercita attraverso ambienti digitali, reti cognitive e dispositivi quotidiani, la cui presenza è capillare e costitutiva. Un potere che non ha bisogno di essere legittimato elettoralmente, perché agisce a monte delle decisioni, modificando il modo in cui le informazioni circolano, il linguaggio si struttura, le relazioni si instaurano e perfino il pensiero si orienta.

Il tentativo di Trump di includere Musk, che con il suo personaggio tra autismo e egocentrismo trascende il resto,  nel proprio progetto di ridefinizione della macchina statale americana è fallito non perché lo Stato abbia prevalso, ma perché ha dimostrato di non avere la capacità né la velocità per incorporare un potere che opera su scala transnazionale, con logiche temporali e modelli decisionali completamente differenti. E questo non è solo un episodio isolato: è il segnale di un’asimmetria sistemica, dove le istituzioni pubbliche appaiono sempre più affaticate, reattive, spesso ridotte a rincorrere l’innovazione con strumenti normativi inadeguati e visioni novecentesche.

In Europa, la situazione è ancora più paradossale: qui i grandi attori del digitale, cinesi, americani e indiani, non esistono nemmeno in forma societaria o fisica, ma agiscono come entità diffuse, pervasive e inafferrabili. I social media, i sistemi operativi, le piattaforme cloud, i modelli linguistici e le intelligenze artificiali parlano le nostre lingue, addestrano i nostri comportamenti e orientano le nostre scelte, ma non rispondono ai nostri parlamenti né condividono i nostri spazi civici. È una forma di colonizzazione che non si manifesta con eserciti o confini, ma con interfacce, protocolli e dataset.

Eppure, mentre ci si illude che la partita sia tra blocchi ideologici o tra correnti interne alla destra americana, si fatica a riconoscere che il paradigma tecno-infrastrutturale non è stato affatto sconfitto: al contrario, si sta riassemblando, cambia forma, si riconfigura, ma non cessa di esercitare potere. Anche se Musk dovesse uscire di scena, e cosi non sarà, anche se le sue aziende perdessero quotazioni o centralità, la logica che incarna, quella dell’autonomia tecnologica, dell’extraterritorialità funzionale, della sovranità algoritmica, continuerà a operare, perché è già parte integrante della struttura del presente.

La vera questione, allora, non è se nascerà un nuovo partito o se la destra americana subirà una nuova metamorfosi, ma se esistano ancora le condizioni per un protagonismo delle comunità territoriali, delle istituzioni civiche e dei soggetti collettivi. L’alternativa non può più essere solo quella tra Stato e mercato, ma deve includere la possibilità di costruire infrastrutture democratiche, intelligenze artificiali locali, proprietà collettive dei dati e processi decisionali che non siano appaltati a poteri opachi, invisibili e inemendabili.

Perché, se continuiamo a guardare la scena con gli strumenti concettuali della geopolitica tradizionale, rischiamo di non accorgerci che le risse, le borse, le dichiarazioni, i tweet, sono solo rumore di superficie. La faglia vera è più profonda, e non ha ancora smesso di muoversi.

Immagine. Il Viandante sul mare di nebbia è un dipinto a olio su tela del pittore romantico tedesco Caspar David Friedrich, realizzato nel 1818. Un uomo solitario osserva un paesaggio avvolto dalla nebbia, simbolo dell’ignoto e dell’infinito. Questo dipinto evoca la riflessione sull’ignoto e sull’abisso tra l’uomo e le forze superiori, parallelo alla distanza tra lo Stato e il potere delle infrastrutture digitali