La fine dell’economia della conoscenza

Il lavoro non viene distrutto dall’intelligenza artificiale, viene esposto per quello che è sempre stato: un sistema fragile, iniquo, costruito su stratificazioni di potere, titoli e bias più o meno espliciti, una macchina sociale che abbiamo continuato a lubrificare. Anish Ramen di LinkedIn lo dice chiaramente: l’AI non rompe il mercato del lavoro, ne mostra il difetto originario, quel vizio di fondo che abbiamo chiamato normalità. Quel difetto ora è impossibile da ignorare. Le carriere lineari, i ruoli fissati, le professioni come status sono una forma obsoleta di organizzazione della fatica umana, un residuo industriale in un’epoca post-industriale che pretende flessibilità, visione, reinvenzione continua. L’AI non automatizza semplicemente ciò che già esiste: smonta e riassembla, destruttura e costringe a ridefinire tutto. Rende visibile ciò che era implicito, rompe i silenzi accumulati. I mestieri diventano insiemi di compiti, e i compiti diventano espressione di competenze che non si insegnano più sui banchi ma si costruiscono nel fare, nel relazionarsi, nell’apprendere per iterazione. Non si chiederà più cosa sei, ma cosa sai fare e con chi lo sai fare, e in quali contesti sei capace di portare valore. In un contesto in cui le identità professionali tradizionali si sgretolano e la rapidità del cambiamento tecnologico supera la capacità delle istituzioni di formare e aggiornare, la capacità di identificare, sviluppare e applicare le proprie competenze in modo flessibile diventa una condizione necessaria per restare rilevanti, per non essere tagliati fuori. È il passaggio da un’economia dell’appartenenza a una dell’adattabilità, dove il saper fare conta più del sapere cosa si è. Non si tratta più di aderire a un ruolo predefinito, ma di essere in grado di reinventarsi in funzione dei contesti, dei bisogni, delle sfide emergenti. Chi esplora, chi apprende, chi riconfigura le proprie capacità in modo dinamico, ha ancora un posto, non perché è più adatto, ma perché è meno statico; questo le famiglie le scuole dovranno insegnare. L’intelligenza artificiale è un sistema di specchi: riflette ciò che sappiamo fare e moltiplica ciò che non abbiamo mai voluto vedere, ci rimanda un’immagine aumentata della nostra vulnerabilità e delle nostre potenzialità. Il nuovo lavoro chiede immaginazione, progettazione, visione. Chiede l’umano in ciò che ha di più umano. Competenze trasversali, abilità relazionali, coraggio e curiosità. Le cinque C — Curiosità, Compassione, Creatività, Coraggio e Comunicazione. Sono ciò che l’AI non riesce a replicare senza scimmiottare, senza cadere nella caricatura. Chi si ostina a cercare protezione in un titolo, sarà spiazzato. Chi si domanda quale valore unico può generare, sarà potenziato. È qui che torna centrale il valore del talento naturale, o meglio: dei talenti, al plurale, che ognuno di noi custodisce in forma grezza, dispersa, spesso dimenticata. In un mondo che chiede continua reinvenzione, non ci si salva imparando a memoria, ma ricordando chi si è davvero. La sfida non è diventare ciò che il mercato vuole, ma riconoscere e attivare quei tratti distintivi — sensibilità, capacità pratiche, intuizioni, ossessioni creative — che rendono ciascuno un nodo irripetibile della rete. È da questi talenti divergenti che nasceranno le risposte che ancora non sappiamo formulare. Il lavoro del futuro non è un posto, è una traiettoria. Non è una sicurezza, è una relazione che evolve. Questo passaggio segna la transizione definitiva dall’economia della conoscenza all’economia dell’innovazione. La prima si è basata sulla raccolta e trasmissione di saperi preesistenti, sulla capacità di accumulare e gestire informazione. Ma ora l’informazione è ovunque, replicabile all’infinito, e la conoscenza non basta più. È l’innovazione,  la capacità di combinare elementi esistenti in modi nuovi, rilevanti, trasformativi, a diventare la risorsa chiave. E questa capacità è specificamente umana. L’economia dell’innovazione mette al centro l’invenzione, l’intuizione, la visione condivisa. Chi innova con altri, costruisce futuro. E in questo scenario anche la scuola e l’università devono saltare. Non si possono più permettere di educare per ruoli che non esisteranno più. Devono diventare fabbriche di domande, non di risposte. Luoghi di esperimenti, non di nozionismi. Il docente non distribuisce contenuti, ma progetta contesti. Lo studente non assorbe, ma costruisce, ricordando che l’errore è il dato. La trasformazione è la misura e non si valuta più l’output, ma il percorso. E chi studia non lo fa per salire una scala, ma per imparare a costruirla da sé, con altri, in ambienti complessi e mutevoli. La differenza tra il giudice e il piastrellista non sarà più il ruolo ma la qualità dell’interazione, la capacità di risolvere problemi, di contribuire al bene comune, di immaginare futuri condivisi. Entrambi generano valore. Entrambi costruiscono qualcosa che prima non c’era. Se messi nelle condizioni, tutti possono essere autori del proprio impatto. L’AI livella le caste; non più gerarchie, ma contributi, non più titoli, ma competenze, non più status, ma impatto. E in questo ritorno all’essenziale, alla relazione fra il lavoro e la sua funzione trasformativa, riecheggia con forza Il Capitale di Marx, dove il lavoro non è solo forza venduta al mercato, ma attività produttiva viva, capacità umana di trasformare la natura e sé stessi, cooperazione organica, sapere incarnato, immaginazione applicata. Quella visione torna ora, prepotente, sotto nuove forme: non come utopia, ma come necessità. Questo è uno scenario possibile, non inevitabile. L’innovazione non è lineare, e la storia non segue un tracciato progressivo. Esistono fratture, derive, deviazioni; possono entrare in gioco forze che destabilizzano, regimi che ricentralizzano, economie che escludono e la AI può anche essere usata per consolidare poteri, non per redistribuirli. Può accentuare le disuguaglianze invece che ridurle, può fingere apertura mentre costruisce nuove forme di chiusura. Ogni scelta tecnologica è una scelta politica, ogni architettura digitale è un modello sociale in codice. Dobbiamo decidere oggi che umanità vogliamo diventare. Non è una questione tecnica. È una questione culturale. Anzi è una questione prima di tutto spirituale. La domanda non è cosa resterà da fare agli umani. Ma cosa possiamo fare meglio insieme all’intelligenza artificiale.

 

Dipinto: “La vocazione di San Matteo” – Caravaggio (1600). Il momento in cui una vita ordinaria viene interrotta da una chiamata. Il gesto della mano, l’ombra, lo stupore: tutto parla del risveglio di una potenzialità. È un’immagine potente del talento che viene riconosciuto, della svolta esistenziale e del passaggio da ciò che si era a ciò che si può diventare.