Non più schiavi né miniere: la vita come dato nel nuovo colonialismo

Il colonialismo non è una parentesi storica, è una tecnologia che cambia forma. All’inizio ha preso le vite, i corpi, il lavoro forzato. Poi ha imparato a essere più efficiente: ha preso le risorse, le materie prime, il sottosuolo. Oggi ha fatto un ulteriore passo, meno visibile e più radicale: non prende la vita, ma la vita stessa come informazione. Non servono catene né miniere; bastano infrastrutture, standard, interoperabilità. Le vite non vengono più dominate direttamente, ma scomposte in dati, correlate, previste, governate.
Una frontiera ancora in larga parte inesplorata e è proprio questo a renderla decisiva. Non si estraggono più solo terre rare, oro, coltan o petrolio, ma flussi sanitari, configurazioni epidemiologiche, traiettorie demografiche. Sempre materie prime ma cognitiva. Sono i dati che rafforzano gli apparati di sicurezza, producono vantaggi competitivi duraturi per l’industria farmaceutica e biotecnologica e diventano una leva decisiva nel governo delle future minacce alla salute globale. Qui non è in gioco la cooperazione allo sviluppo dei popoli, ma la capacità di anticipare: stabilire cosa conta, quali decisioni diventano tecnicamente necessarie. Investire nei dati sanitari africani significa investire nel tempo, non nello spazio. Significa puntare sull’unico continente a demografia positiva, su popolazioni che cresceranno mentre altrove si contraggono. Chi governa quei dati governa i modelli di rischio, i mercati della salute, le politiche della vita che verranno.
Il costo di questa operazione non è visibile nei comunicati ufficiali, ma si scarica sui sistemi scientifici africani, già fragili sul piano dei finanziamenti, delle pubblicazioni, dei brevetti, della proprietà intellettuale. Le università africane producono ricerca, dati e ricercatori di alto livello, ma la scarsità di risorse le costringe a restare ai margini del dibattito internazionale: generano conoscenza che altri analizzano, interpretano e capitalizzano, quando sarebbe vitale l’opposto, cioè che fossero loro a guidare le domande, i modelli e le decisioni globali. L’esternalizzazione dei dati non è neutra: sposta il luogo in cui la conoscenza diventa valore e restringe ulteriormente lo spazio per un’autonomia scientifica del continente. Le competenze ci sono ma stanno dentro un’architettura che produce sapere qui e rendita altrove.
Il 4 dicembre un accordo sanitario firmato tra Stati Uniti e Kenya è passato quasi sotto silenzio fuori dai circuiti specialistici. Washington ha annunciato un programma pluriennale di cooperazione sanitaria da oltre un miliardo di dollari, presentato come un investimento nel rafforzamento del sistema sanitario keniota e nella sua autosufficienza. Il Kenya è stato il primo paese africano a sottoscrivere questo nuovo modello di intesa, pensato per essere replicato altrove. Non si tratta di un singolo programma di aiuti, ma di un framework infrastrutturale: digitalizzazione delle strutture sanitarie, diffusione delle cartelle cliniche elettroniche, integrazione dei sistemi di sorveglianza epidemiologica, interoperabilità dei dati a livello nazionale, utilizzo di strumenti di analytics avanzati e intelligenza artificiale.
A questo framework è affiancato un accordo separato sulla condivisione dei dati sanitari, anch’esso poco discusso pubblicamente. Il testo chiarisce che il Kenya mantiene la proprietà dei dati e che la condivisione di informazioni personali identificabili deve essere evitata “per quanto praticamente possibile”. Ma il cuore dell’intesa non riguarda il trasferimento di database: riguarda l’accesso ai sistemi, ai flussi, alle dashboard analitiche. Il valore non è nel singolo dato clinico, ma nella capacità di aggregarlo, interpretarlo e trasformarlo in previsione. È qui che la sovranità diventa ambigua: resta formale, mentre il potere cognitivo viene incorporato nell’infrastruttura.
C’è un ulteriore livello, meno visibile ma decisivo, che aiuta a leggere questa sequenza di eventi: il longtermismo come grammatica implicita del potere contemporaneo. A inizio anno 2025, quando Donald Trump ha nominato Elon Musk alla guida del nuovo Department of Government Efficiency (DOGE), la prima mossa non è stata una riforma né un investimento strategico, ma un taglio. Musk ha smantellato interi dipartimenti di cooperazione internazionale, licenziato personale con esperienza pluridecennale nei programmi di aiuto e ridotto drasticamente i fondi destinati ai paesi del Sud globale. Non un errore, ma una scelta coerente perchè il longtermismo non nega la cura: la rimanda e la gerarchizza. Sacrifica il presente in nome di un futuro astratto, calcolabile, ottimizzato. In questa prospettiva, la cooperazione umana diventa inefficiente, mentre l’investimento in infrastrutture, dati e capacità predittive appare razionale. Non serve più aiutare i paesi del Sud globale; basta integrarli come sistemi, come serbatoi di dati, come variabili di modelli futuri. È una visione che spiega bene perché, nello stesso momento storico, si tagliano fondi alla cooperazione e si costruiscono accordi sanitari ipertecnologici. Questo schema non riguarda solo il Kenya. Nigeria, Uganda e altri paesi africani stanno entrando nella stessa architettura, con accordi simili che combinano finanziamenti, riforme dei sistemi sanitari e integrazione digitale. La salute diventa così infrastruttura strategica, non solo bene pubblico.
Pochi giorni dopo l’accordo sanitario si è mossa anche la dimensione militare. Il 25 dicembre, gli Stati Uniti hanno lanciato raid aerei nel nord-ovest della Nigeria, colpendo obiettivi legati allo Stato Islamico. L’operazione è stata rivendicata direttamente da Donald Trump, che l’ha giustificata pubblicamente come un intervento per “proteggere i cristiani” mentre il governo nigeriano non fa menzione di un attacco “religioso”. Quel bombardamento non avviene fuori contesto ma avviene nello stesso spazio geopolitico in cui si concentrano popolazioni in crescita, sistemi sanitari in via di standardizzazione, flussi informativi sempre più densi e interessi strategici di lungo periodo. Hard power e soft power qui non si alternano: si sostengono. La presenza militare garantisce continuità, deterrenza e affidabilità delle alleanze; la cooperazione sanitaria costruisce infrastrutture che producono conoscenza, previsione, capacità di governo del futuro. I dati sanitari non servono a giustificare le bombe e le bombe non servono a rubare i dati. Insieme, però, stabilizzano un perimetro di influenza in cui salute, demografia e tecnologia diventano variabili di sicurezza nazionale.
Vedete voi se questi accordi sono legali o animati da buone intenzioni. Il punto è che, una volta costruita l’infrastruttura, la domanda su chi decide diventa tardiva. E il potere, quando arriva prima delle domande, non ha più bisogno di giustificarsi. Questo non è solo neocolonialismo. È la sua versione aggiornata: meno visibile, più efficiente, perfettamente compatibile con il linguaggio della cura. E proprio per questo, più difficile da contrastare.
Immagine: Diagramma della nave negriera Brookes (1788). Il corpo su queste navi non è più individuo, ma unità standardizzata: spazi misurati, posture imposte, ottimizzazione della capienza. È lo schiavismo ridotto a infrastruttura, a protocollo di efficienza. Standard, interoperabilità, corpi scomposti in dati e resi governabili.