Sul primo governo con una ministra AI. E sul potere di chi scrive il codice.
di Nicola Pirina e Michele Kettmajer
C’è una nuova ministra in Europa, priva di corpo, biografia e legittimazione elettorale, che non conosce paura, non ha legami familiari o affiliazioni partitiche, non deve nulla a nessuno e non sembra soggetta né a desideri personali né a deviazioni di volontà; l’errore, per lei, esiste solo come eccezione computazionale, come anomalia nel codice. Si chiama Diella, ed è un’entità sintetica rivestita di abiti tradizionali, alla quale il governo albanese ha affidato, dal settembre 2025, la delega formale alla gestione degli appalti pubblici.
Siamo davanti alla prima ministra algoritmica della storia contemporanea. Eppure sarebbe un errore considerarla solo una provocazione politica o un’operazione estetica. Diella non è né una macchina né un simbolo: è una nuova forma di governo. O, più precisamente, un nuovo modo di scrivere il potere, dove il codice prende il posto della deliberazione e la trasparenza si trasforma in tracciabilità computazionale. Ma resta aperta una questione cruciale: chi ha davvero progettato Diella? Quali aziende tecnologiche hanno fornito l’architettura sottostante? Quali interessi economici e geopolitici sostengono la scelta del premier Rama? Senza questi dettagli concreti, il rischio è di restare nell’astratto, di descrivere un dispositivo senza rivelarne i nodi di potere reali.
Chi conosce il funzionamento dei bandi pubblici sa che lo spazio del potere non si trova solo nella legge, ma nell’interpretazione delle soglie, nei criteri a maglie larghe, nei margini di valutazione. È lì che si gioca l’arbitrio, ma anche in teoria, la possibilità di scegliere bene, di premiare qualità e non solo conformità. Inserire un’intelligenza artificiale in questo meccanismo significa comprimere quel margine, costringere l’amministrazione a esprimersi in un linguaggio computabile, formalizzare il consuetudinario, ridurre l’ambiguità semantica. Il potere si fa codice, ma non evapora: migra nei protocolli, nei modelli, nei flussi decisionali che sfuggono allo sguardo amministrativo tradizionale.
La promessa è seducente: l’algoritmo non prende tangenti. Ma non basta non accettare bustarelle: occorre essere immuni alla manipolazione a monte; forse inserire attori privati con interessi precisi dentro alla democrazia e alle istituzioni è persino più pericoloso. Ogni algoritmo è un insieme di scelte: metriche, soglie, pesi, criteri escludenti. Ogni modello è una memoria del passato: apprende da dati già distorti, replica gerarchie, congela egemonie. Se i dati storici premiano i soliti noti, l’algoritmo perpetua. Diella può diventare incorruttibile solo se accettiamo che la corruzione, oggi, non avviene più nel gesto privato, ma nella progettazione sistemica dell’infrastruttura digitale, quella che Bridle chiamerebbe “la cloud opaca”. Ma anche qui, serve concretezza: chi definisce i criteri? Quali organi di controllo garantiscono che non siano aziende private a stabilire, in ultima istanza, le metriche di esclusione e di successo?
Non è un caso che Rama abbia scelto di presentare Diella con un volto, una voce, un abito. La macchina ha bisogno di un corpo per acquisire legittimità simbolica. Ma quel corpo non è umano: è un travestimento, una soglia simbolica, un rituale di passaggio. È il trucco necessario per rendere accettabile ciò che, nella sostanza, resta alieno. Già nel 1970, Masahiro Mori teorizzava l’effetto dell’Uncanny Valley: più un robot assomiglia all’umano, più la sua imperfezione genera inquietudine. Diella vive in quella valle perturbante, dove l’efficienza digitale si maschera da prossimità antropomorfa.
È lo stesso paesaggio simbolico evocato da Freud nel Perturbante, e da Günther Anders nella sua critica all’uomo post-prometeico: colui che arretra davanti a un artefatto che lo supera nel suo stesso mestiere. Ma anche Donna Haraway ci mette in guardia contro le seduzioni della familiarità: ogni cyborg è una figura parziale, non una totalità. Diella non è un’interfaccia: è un passaggio tra mondi diversi. Non è lì per pensare meglio, ma per trasformare il pensabile in eseguibile.
La vera frontiera è la produzione di legittimità automatizzata. Non basta che Diella risponda: deve rendere conto. Non può limitarsi a spiegare: deve essere interrogabile. Una decisione algoritmica, per essere accettabile, deve poter essere decomposta, retrotracciata e simulata in forma controfattuale. L’intelligenza accettabile non è quella che convince, ma quella che espone i suoi criteri. Il resto è folklore tecnologico, o peggio, un’esibizione di neutralità performativa.
Ma Diella c’entra poco o nulla. È la trasformazione che impone allo Stato: un obbligo di standardizzare, ripulire, tipizzare, formalizzare. L’AI impone un diritto computabile, regole condivise, una macchina logica dell’allocazione. È un passaggio da norme negoziabili a norme eseguibili.
Diella non è una visione distopica. È un esperimento istituzionale ad alta intensità simbolica. Sarà giudicata non sulla sua efficienza, ma sulla qualità politica dell’architettura che la sostiene. Un algoritmo può diventare ministra o ministro non perché possiede intelligenza, ma perché obbliga lo Stato a pensare nel linguaggio del calcolo, a codificare ciò che prima restava implicito. Non è un trionfo della tecnica. È un vaccino istituzionale contro l’arbitrio, ma ogni vaccino modifica anche l’organismo che intende proteggere. E la democrazia, se vuole sopravvivere, dovrà imparare a leggere quei log come atti politici.
Ma il nodo è più profondo, e irrimandabile: chi definisce oggi le architetture della discrezionalità pubblica? Chi scrive, letteralmente, le condizioni con cui uno Stato assegna risorse, decide priorità, attribuisce fiducia? La questione non è solo tecnica: è politica in senso pieno, perché riguarda la distribuzione del potere nell’era dell’intelligenza digitale. Delegare alla macchina senza ridefinire la sovranità significa spostare il baricentro decisionale fuori dai circuiti democratici. Il rischio allora non è l’errore, ma l’irresponsabilità: se non possiamo più nominare un responsabile, allora abbiamo abdicato. Diella è una sfida aperta; può essere un laboratorio di trasparenza radicale e giustizia redistributiva, oppure un altro dispositivo di sorveglianza automatizzata travestito da efficienza. La posta in gioco è la capacità collettiva di progettare potere pubblico senza cedere alla sua automatizzazione ormai non più silente.
Immagine: È una curva ipotetica che mette in relazione quanto un oggetto che assomiglia a un essere umano con la reazione emotiva che suscita in noi. All’inizio, se un automa o un robot è poco somigliante a un umano, la reazione è neutra o leggermente positiva. Man mano che assomiglia di più a un essere umano, la simpatia o la familiarità aumentano. Ma quando il grado di somiglianza diventa molto alto ma non perfetto, ecco che inizia la “valle perturbante” (uncanny valley): un punto oltre il quale la somiglianza quasi umana diventa inquietante, genera repulsione, disagio. Perché qualcosa che quasi è umano, ma non lo è del tutto, evoca un senso di sbagliato, di “quasi ma no”. Se invece si raggiunge la somiglianza perfetta o molto vicina ad essa, l’attrazione/familiarità risale di nuovo, perché allora percepiamo l’“umano” come tale. Il concetto di Uncanny Valley è stato ideato da Masahiro Mori, ingegnere e professore giapponese di robotica, nel 1970.