SVIMEZ: dopo settant’anni di dati, il futuro si decide ora

di Nicola Pirina e Michele Kettmajer

Dal 1946 la SVIMEZ misura il polso del Mezzogiorno. Ha visto la febbre salire e scendere, ha registrato miglioramenti temporanei e ricadute croniche. Ha contribuito a inventare la Cassa per il Mezzogiorno, a sostenere l’industrializzazione, a dare dignità statistica e scientifica a un divario che non è mai stato solo economico. Ma oggi, di fronte a un’Italia invecchiata, spopolata nelle aree interne e schiacciata da una competizione globale che richiede massa critica, la domanda non è più solo quanto il Sud sia indietro, ma come trasformarlo in piattaforma di sviluppo nazionale.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, la ricetta fu chiara: pianificazione centralizzata, investimenti infrastrutturali e poli industriali. Oggi lo scenario è diverso: il capitale è mobile, la tecnologia corre, e le sfide sono transizione energetica, infrastrutture digitali, sicurezza alimentare, gestione strategica dei dati.

Dalla sua fondazione, la SVIMEZ ha attraversato tutte le fasi della questione meridionale: l’entusiasmo pianificatore del dopoguerra e la stagione della Cassa per il Mezzogiorno, la convergenza temporanea degli anni del boom, la frenata degli anni Settanta con l’avvento delle Regioni e la frammentazione delle politiche, il disimpegno degli anni Novanta e la dipendenza dai fondi europei, fino alle crisi più recenti, dalla recessione del 2008 alla pandemia. Oggi, il Rapporto SVIMEZ 2023 registra un segnale positivo: nel triennio 2021-2023 il Sud è cresciuto più del Centro-Nord e nel 2024 è atteso un +1% contro lo 0,7% del resto del Paese. Segno che, con investimenti mirati e sostegno ai redditi, il Mezzogiorno può recuperare terreno più rapidamente. Ma la forbice accumulata in precedenza resta ampia, e si intreccia con un’emergenza nuova: la crisi demografica. Entro il 2050, il Sud potrebbe perdere 3,6 milioni di residenti, con un crollo del 32% dei giovani sotto i 15 anni. Non è più solo un divario economico: è una questione di risorse umane, di capacità di trattenere e attrarre le generazioni che possono ancora scrivere il futuro del territorio.

Negli ultimi anni la SVIMEZ ha ampliato il raggio d’azione oltre il Rapporto annuale, producendo studi tematici su parità di genere, migrazioni di ritorno, ZES e altre questioni emergenti, partecipando a tavoli istituzionali e offrendo audizioni parlamentari. Eppure, l’impatto concreto di questo lavoro è stato diseguale: nei primi decenni repubblicani la sua capacità di incidere sulle politiche fu decisiva – basti pensare alla genesi della Cassa per il Mezzogiorno – mentre oggi molte proposte si fermano sulla soglia della decisione politica. Il limite è strutturale: la SVIMEZ fornisce dati e analisi, ma non può sostituirsi alla volontà e alla capacità di governo. Il caso dei Livelli Essenziali delle Prestazioni è emblematico: l’associazione ne chiede da anni l’applicazione uniforme sul territorio, ma le misure restano incompiute, con divari nei servizi che si cronicizzano. Talvolta il suo nome è usato come legittimazione retorica da parte dei governi, senza seguito operativo; altre volte, come nella decontribuzione Sud introdotta nel 2020, i suoi studi hanno fornito la base tecnica a interventi concreti, oggi in vigore. È un ruolo oscillante, tra coscienza critica e motore di proposte, che ha smesso di “dettare l’agenda” come negli anni Cinquanta-Sessanta, limitandosi a orientarla in un contesto politico spesso distratto o ostile.

Derive contemporanee e nodi strutturali
Oggi la questione meridionale si muove in un contesto segnato da tre derive che si alimentano a vicenda: un localismo istituzionale esasperato, una burocrazia ipertrofica e una miopia politica che fatica a guardare oltre l’orizzonte elettorale.

Il primo nodo è la frammentazione. L’Italia ha progressivamente aumentato il peso delle autonomie locali – dalle Regioni negli anni Settanta alla riforma del Titolo V nel 2001 – senza costruire un coordinamento solido. Nel Mezzogiorno questo si traduce in una moltiplicazione di piani industriali, turistici, infrastrutturali, spesso in concorrenza o duplicazione tra regioni confinanti, fino a campanilismi che bloccano progetti strategici. La spinta all’autonomia differenziata rischia di accentuare questo quadro: senza la garanzia preliminare dei Livelli Essenziali delle Prestazioni, potrebbe cristallizzare le disuguaglianze e trasformarsi in una “guerra tra poveri”, premiando i territori più ricchi a scapito di quelli più deboli. L’alternativa non è un ritorno al centralismo, ma un federalismo cooperativo, capace di mettere in rete più regioni su macro-progetti comuni – dalla rete portuale alla Napoli-Bari-Taranto, fino al corridoio adriatico-ionico – per acquisire massa critica e parlare con una sola voce a Roma e Bruxelles.

Il secondo nodo è la burocrazia. Il Sud ha un fabbisogno di investimenti pubblici più alto che altrove, ma è proprio qui che spenderli diventa più difficile, tra procedure complesse, carenza di personale qualificato e scarsa capacità progettuale. Il risultato è un paradosso: fondi europei non spesi, proroghe continue, opere che restano sulla carta. Alcuni correttivi – digitalizzazione, task force tecniche, coinvolgimento di grandi stazioni appaltanti – sono passi nella giusta direzione, ma restano misure tampone. Servono responsabilità chiare, premi agli enti virtuosi, commissariamento dei progetti bloccati, e soprattutto una semplificazione che sposti il peso dai controlli ex-ante a quelli ex-post. Senza questo salto di efficienza, il Sud continuerà a perdere occasioni e investimenti, interni ed esteri.

Il terzo nodo è la miopia politica. Troppo spesso le politiche per il Mezzogiorno oscillano tra l’emergenza e la misura spot, confondendo assistenza e sviluppo. Il Reddito di Cittadinanza, utile nel contrasto alla povertà, non è una politica industriale; i bonus settoriali non sostituiscono un piano strategico. Pensare in grande significa fissare una traiettoria di 10-20 anni, integrare il tattico nell’obiettivo strategico, garantire continuità indipendentemente dal colore politico dei governi. L’assenza di questa “memoria lunga” – evidente nel rapido abbandono del Piano Nazionale Sud 2030 – mina la credibilità agli occhi di investitori e cittadini.

Localismo, burocrazia e miopia sono tre facce della stessa medaglia: l’incapacità del sistema-Paese di trasformare l’analisi in azione continuativa e coordinata. Il Mezzogiorno ne è la cartina di tornasole: se si correggono queste debolezze, ne beneficerà non solo il Sud, ma l’Italia intera; se restano irrisolte, la distanza Nord-Sud continuerà a essere la misura di un declino collettivo.

SVIMEZ: bilancio critico e orizzonti per un nuovo meridionalismo

La SVIMEZ è oggi una delle poche istituzioni che hanno mantenuto un’attenzione costante e documentata sul Mezzogiorno, anche nei momenti in cui la politica nazionale lo rimuoveva dall’agenda. Ha costruito un patrimonio unico di dati e analisi, formando generazioni di studiosi e tecnici, e aggiornando nel tempo le proprie chiavi di lettura: dall’industrializzazione e dalle infrastrutture del dopoguerra alla qualità istituzionale, al capitale umano, all’innovazione e alla transizione ecologica. Ha messo sul tavolo proposte concrete – dalla fiscalità di vantaggio alla messa in sicurezza del territorio – che in alcuni casi hanno trovato attuazione, come il credito d’imposta per investimenti al Sud. Il limite strutturale resta quello di ogni centro di ricerca: indicare la rotta senza poter governare il timone. Quando il contesto politico è sordo o distratto, le sue analisi rischiano di restare “prediche nel deserto” e la ripetizione annuale degli stessi dati può generare assuefazione. Una comunicazione ancora troppo tecnica ha spesso allontanato il grande pubblico, riducendo la pressione dal basso. Negli ultimi anni l’ente ha cercato di ribaltare l’immagine di un Sud solo “zavorra”, mettendo in luce i segnali di crescita e investendo su linguaggi più divulgativi per rafforzare il consenso sociale attorno a una politica di coesione nazionale. Resta, però, un punto fermo: la SVIMEZ può illuminare il percorso, ma senza “costruttori sul campo” pronti a percorrerlo, la luce non basta.

Un meridionalismo moderno: visione, reciprocità, capitale umano, strategia

Rilanciare oggi un meridionalismo capace di incidere significa spostare lo sguardo: il Sud non come periferia in ritardo da omologare al Nord, ma come spazio strategico dentro le sfide globali. Nella transizione digitale, può diventare un magnete per lavoratori da remoto, imprese IT e poli tecnologici decentrati se dotato di connettività avanzata e formazione diffusa; nella transizione climatica, può essere laboratorio di rinnovabili, gestione idrica in aree aride, agricoltura sostenibile e turismo ecologico, con il 38% della potenza fotovoltaica nazionale già installata al Sud. L’innovazione va alimentata con reti internazionali – Silicon Valley, Israel Innovation Authority – e strumenti come ZES di seconda generazione, zone franche non solo fiscali ma burocratiche. Tutto dentro una narrazione positiva: il Sud come piattaforma logistica e culturale dell’Europa verso Africa e Asia occidentale.

Questa visione richiede di costruire reciprocità di interessi tra Nord e Sud, sfatando l’idea che la crescita di uno sia perdita per l’altro. Porti, parchi eolici, progetti di digitalizzazione o riconversione energetica possono generare vantaggi e commesse per tutto il Paese se concepiti come “Progetti Paese” trasversali. Servono nuovi collanti: se l’emigrazione di un tempo era ponte umano, oggi lo sono progetti comuni e alleanze produttive.

Il cardine resta il capitale umano e sociale: investire in istruzione, trattenere e riportare giovani, rafforzare la società civile, premiare legalità e cooperazione. Le infrastrutture immateriali – fiducia, reti tra comuni, patti educativi – contano quanto quelle fisiche.

Infine, serve ritrovare un pensiero strategico di lungo periodo: un programma decennale per infrastrutture e innovazione, con risorse garantite e poteri anti-stallo, che completi l’alta velocità fino a Reggio Calabria e in Sicilia, potenzi reti idriche e portuali, metta in sicurezza le città e sviluppi filiere in cui il Sud può eccellere. La SVIMEZ, forte della sua autorevolezza, potrebbe farsi promotrice di un “Manifesto Sud 2050” che chiami a raccolta economisti, urbanisti, climatologi, sociologi e giovani innovatori. Solo con un orizzonte condiviso e di lungo periodo è possibile uscire dalla logica dell’emergenza e trasformare la questione meridionale in leva per l’Italia intera.

Ora, dopo sette decenni, il meridionalismo ha ancora ragion d’essere, ma deve rinnovarsi. Come scrisse già nel 2012 Amedeo Lepore, occorre riprendere la lezione del nuovo meridionalismo originario – quello di SVIMEZ e della Cassa – però senza invocare astrattamente la coesione nazionale, bensì costruendo percorsi concreti dove gli interessi del Nord e del Sud convergano in un comune confronto con la competizione globale. In un mondo che cambia, il Mezzogiorno d’Italia può tornare ad essere una frontiera di sviluppo e non una retrovia depressa. Ma perché ciò accada, serve una volontà politica illuminata, istituzioni efficienti, e una cittadinanza meridionale protagonista del proprio destino.

La SVIMEZ, con la sua storia e il suo presente, può essere un tassello chiave di questa rinascita di visione: continuando a fornire la “cassetta degli attrezzi” analitica e le evidenze oggettive su cui basare le decisioni, e forse facendosi anche catalizzatrice di un nuovo patto tra le parti migliori della società italiana per il riscatto del Sud. I suoi limiti – la mancanza di potere esecutivo e l’ascolto intermittente – potranno essere superati se maturerà una nuova sensibilità politica. In fondo, la SVIMEZ stessa nel suo statuto aggiornato si dà tempo fino al 2050 per la sua missione. È come se dicesse: “vogliamo poter chiudere bottega nel 2050 perché il problema sarà risolto”. 

Non c’è più spazio per nostalgie o rassegnazione: il meridionalismo moderno dovrà essere innovativo, coraggioso e aperto al mondo, esattamente come lo furono quei visionari del 1946 che fondarono la SVIMEZ pensando non solo al Sud, ma al futuro di un’Italia migliore unita nella diversità. Il futuro del meridione si decide ora.