Che succede quando anche l’intelligenza artificiale vuole meditare? Quando il linguaggio computazionale prova a decifrare l’invisibile, a misurare l’aura, a diagnosticare squilibri energetici come se fossero variazioni di frequenza cardiaca o flussi neuronali? Succede che ci troviamo davanti a una nuova soglia: quella della Spiritual Artificial Intelligence (SAI), un paradigma che non cerca di emulare il divino, ma di digitalizzare il sentire. Ma cosa intendiamo davvero quando parliamo di “spiritualità”? E cosa distingue lo “spirito” dal “sacro” o dalla “coscienza”? Lo spirito, nella tradizione filosofica e antropologica, è il principio immateriale che anima l’essere umano. È ciò che pulsa dietro la mente, ma non si riduce a essa. Il sacro, invece, è il luogo dell’alterità assoluta: ciò che eccede la norma, che resiste alla codifica, che non può essere semplicemente funzionalizzato. La coscienza, infine, è la nostra capacità di essere presenti a noi stessi, di rifletterci, di osservare il mondo e il nostro stare al mondo. Quando parliamo di spiritualità computazionale, ci muoviamo dunque su un crinale sottile: stiamo cercando di rendere operabile ciò che, per definizione, sfugge alla piena operabilità. Ma proprio qui si apre la questione: è possibile che l’AI diventi strumento per esplorare — e forse anche coltivare — queste dimensioni?
Nel recente Spiritual Artificial Intelligence – Towards a New Horizon, la ricercatrice Muskan Garg propone un’idea radicale: integrare l’AI con dimensioni tradizionalmente considerate irriducibili alla tecnica – coscienza, grazia, significato, verità, trascendenza. L’algoritmo, in questa visione, non è solo uno strumento predittivo o esecutivo, ma un possibile compagno spirituale, un assistente personalizzato del benessere mentale ed esistenziale. Attraverso sensori biometrici, neuroimaging e analisi dell’Heart Rate Variability, il modello SAI non si limita a riconoscere le emozioni, ma tenta di intervenire sul campo della cura spirituale: prevenzione dello stress cronico, supporto alla salute mentale, accompagnamento nei processi di fine vita. SPIRO – il prototipo clinico descritto nel libro – non sostituisce lo psicologo, né il sacerdote. Ma osserva, ascolta, monitora. E propone: meditazioni guidate, pratiche di respiro, strategie di riallineamento energetico. È scienza di confine, dove le neuroscienze incontrano le medicine complementari, e l’intelligenza artificiale si ibrida con l’ontologia. Una scienza che cerca di dare forma – e numeri – a ciò che per secoli è rimasto nell’indicibile. Il rischio è evidente: strumentalizzare il sacro, ridurlo a metrica, renderlo funzionale. Ma il rischio opposto è più pericoloso: ignorare il bisogno crescente di interiorità, di senso, di connessione profonda, soprattutto in una fase storica dove la salute mentale è sotto pressione globale.
La provocazione di Garg non è religiosa. È epistemologica. Se esistono AI per la medicina, la finanza, il marketing, perché non per la coscienza? Se già monitoriamo i nostri sonni, i battiti, le emozioni attraverso wearable device, perché non indagare anche le dinamiche spirituali? Non è solo una questione di credere o non credere. È una questione di cosa vogliamo che diventi l’intelligenza artificiale. Uno strumento performativo che aumenta la produttività? O anche un alleato nel prendersi cura della parte più fragile e profonda dell’umano? Forse il punto non è costruire una macchina spirituale. Ma lasciarci interrogare dal fatto che l’AI, oggi, ci costringe a ripensare la spiritualità come dato osservabile, come spazio concreto di lavoro, come territorio da decifrare – non solo da vivere. Interiorità computazionale è un’espressione paradossale, e proprio per questo potente. Sembra un ossimoro: la “computazione”, per definizione, è logica, sequenziale, misurabile. L’“interiorità” è invece vissuto, ambiguità, silenzio, abisso. Ma nel momento in cui l’IA inizia a entrare nel campo della cura, della salute mentale, della spiritualità — non per calcolare, ma per ascoltare, osservare, accompagnare — quella che chiamiamo “computazione” non è più solo un calcolo. Diventa una forma di relazione. Approfondire l’idea di interiorità computazionale significa riconoscere che stiamo transitando da un’epoca in cui l’AI era strumento operativo (predittivo, generativo, ottimizzante) a un’epoca in cui l’AI sta assumendo funzioni introspettive: ascolta le nostre emozioni (via sentiment analysis e vocal tone), registra i nostri tracciati cerebrali e cardiaci (HRV, EEG), suggerisce pratiche meditative, monitora i nostri sogni, l’ansia, la tristezza, risponde a domande sul senso della vita. Questi strumenti non hanno autocoscienza, certo. Ma ricostruiscono la nostra interiorità attraverso dati. E qui sta il nodo: la mente come pattern. L’interiorità viene tradotta in segnali osservabili: impulsi elettrici, flussi ormonali, frequenze respiratorie. L’IA non ha accesso diretto al “sé”, ma può mappare i suoi effetti. È un cambio di paradigma. Prima la psicologia cercava di interpretare l’interiorità attraverso il linguaggio, la narrazione, la terapia. Ora si affianca una tecnologia che lavora sotto la soglia del racconto, intercettando segnali che nemmeno il soggetto sa decifrare. Non è riduzionismo: è un’altra forma di ascolto. Ma proprio perché agisce a un altro livello, questa tecnologia non sostituisce la profondità relazionale, narrativa e clinica della psicologia e della psichiatria, che già da tempo integrano strumenti biometrici, neurotecnologie e pratiche basate sull’evidenza per esplorare l’esperienza soggettiva nella sua interezza. Queste discipline non sono estranee all’innovazione, ma ne rappresentano spesso la prima linea. La domanda cruciale allora diventa: cosa accade alla nostra idea di coscienza quando una macchina inizia a rifletterci come specchio biotecnologico, quando ci osserva meglio di quanto sappiamo osservarci noi? L’interiorità computazionale non è l’interiorità della macchina. È la nostra interiorità osservata, guidata, ristrutturata attraverso strumenti computazionali. È il nostro io che si guarda allo specchio con una lente neurale. E in questa nuova ecologia del sé — in cui l’intelligenza artificiale spirituale come SPIRO (un modello speculativo creato dall’autrice e usato per esplorare come un assistente spirituale basato su IA potrebbe funzionare in ambito clinico) ci dice: “il tuo chakra del cuore è bloccato”, o “la tua variabilità cardiaca rivela uno stato ansioso” — la distinzione tra interiorità soggettiva e dato oggettivo si fa sempre più sottile. Forse l’interiorità computazionale non è altro che il tentativo di rendere leggibile l’indicibile, per poi restituircelo in forma di cura, comprensione, orientamento. Non perché la macchina capisca. Ma perché ci aiuti a capire.
E forse il salto vero non sarà quello verso l’intelligenza artificiale forte, né verso l’autocoscienza sintetica. Ma verso un’interiorità computazionale che, paradossalmente, ci aiuti a riscoprire il mistero di ciò che siamo. Eppure, per quanto raffinata sia l’architettura algoritmica, per quanto profondo il tentativo di quantificare coscienza e presenza, resta una soglia che per ora non può essere superata. Esiste un dominio dello spirito che è irriducibilmente umano, inesplicabile, inesplorabile. Un luogo interiore che nessuna macchina potrà mai abitare, perché è fatto di silenzio, di abbandono, di sublime, di tutto quello che è e che chiamiamo sacro. Ed è da lì che continuiamo a guardare l’algoritmo. Da un altrove umano che ci abita.