Finalmente molti stanno riscoprendo le Encicliche dei Papi. E se Papa Leone XIV ha scelto il suo nome in memoria di Leone XIII, autore della Rerum Novarum, oggi lo sguardo si sposta in avanti: il riferimento è la Quadragesimo Anno. L’enciclica di Papa Pio XI, pubblicata nel 1931, come riconoscimento quarant’anni dopo della Rerum Novarum. Anche quella volta la Chiesa si trovò a fronteggiare un mondo in crisi: il crollo di Wall Street del 1929 aveva scosso le fondamenta dell’economia globale e il capitalismo sfrenato stava mostrando il suo volto più feroce. La Quadragesimo Anno aggiornò l’approccio della Rerum Novarum, introducendo il principio di sussidiarietà: un invito a non accentrare il potere nelle mani di poche grandi istituzioni, ma a valorizzare il livello locale, l’iniziativa personale e comunitaria. Una lezione preziosa anche oggi, quando il potere delle grandi piattaforme tecnologiche rischia di trasformare il lavoro in una funzione subordinata all’algoritmo, e l’uomo in un prodotto tra i prodotti.
Se guardiamo al passato, i Ludditi ci insegnano una lezione preziosa. Spesso rappresentati come retrogradi nemici del progresso, erano in realtà lavoratori consapevoli del pericolo insito nell’uso capitalistico della tecnologia. Non combattevano contro il telaio in quanto macchina, ma contro il suo utilizzo per distruggere una cultura del lavoro costruita su abilità artigiane e rapporti comunitari. I Ludditi non rifiutavano il cambiamento: si opponevano alla sua imposizione senza dialogo. Vedevano chiaramente che la nuova produzione industriale non significava solo accelerazione o efficienza, ma anche perdita di autonomia e degradazione sociale. Non erano tecnofobi, ma ribelli contro un modello economico che annientava il senso stesso di dignità lavorativa.
I lavoratori di oggi si trovano di fronte a una sfida simile, anche se in una cornice storica diversa. L’AI non è più una minaccia lontana, ma una realtà che già sconvolge il mercato del lavoro: chatbot che sostituiscono impiegati, algoritmi che determinano assunzioni e licenziamenti, automazione che cancella intere professioni in pochi mesi. Ma proprio come i Ludditi, anche oggi il punto non è il progresso tecnologico in sé, bensì l’uso che se ne fa. I grandi giganti tecnologici stanno sfruttando l’automazione per consolidare il potere economico nelle mani di pochi, riducendo i lavoratori a figure accessorie, flessibili e sempre disponibili. Non è la tecnologia il problema, ma l’approccio predatorio che la considera un’arma contro i diritti e non uno strumento per migliorare la vita.
A differenza dei Ludditi, che reagirono con la distruzione dei telai, i lavoratori di oggi devono imparare a rispondere con una strategia diversa, perché il contesto è mutato. Non si tratta più di rompere le macchine, ma di riappropriarsi del loro utilizzo e della loro gestione. L’obiettivo non è arrestare l’innovazione, ma governarla democraticamente. I nuovi lavoratori devono organizzarsi non più solo in sindacati tradizionali, ma in reti globali capaci di sfidare il potere centralizzato delle piattaforme. Servono forme di rappresentanza capaci di contrattare non solo salari, ma anche algoritmi: trasparenza nell’uso dei dati, diritto alla disconnessione, salari garantiti anche per chi lavora nelle piattaforme digitali.
E non si può parlare di potere senza affrontare la questione dei dati. Nell’epoca dell’AI, i dati non sono solo informazioni, ma veri e propri strumenti di dominio. Chi possiede i dati possiede il controllo, determina decisioni, orienta il mercato e, di conseguenza, la vita delle persone. La vera sfida è rivendicare la proprietà collettiva dei dati, riconoscendoli come un bene comune da gestire in maniera trasparente e democratica. Solo così si può evitare che l’innovazione tecnologica diventi una nuova forma di oppressione, e non una strada verso l’emancipazione.
Ma c’è un’ultima, decisiva soglia da varcare: quella del potere. Perché in questo tempo in cui l’intelligenza artificiale riscrive le regole, non basta difendere il lavoro: bisogna ridisegnarlo, rilanciarlo come fondamento di cittadinanza democratica. Il lavoro non è solo produzione, ma cooperazione, riconoscimento, costruzione di legami. E se il lavoro è ciò che rende liberi, allora deve tornare al centro non solo dell’economia, ma della politica e della cultura. Ciò significa riconoscere ogni forma di lavoro, anche quello invisibile, non retribuito, quello delle famiglie, degli anziani, delle comunità. E soprattutto, restituire ai lavoratori la sovranità su ciò che producono — non solo beni e servizi, ma anche dati. Perché i dati, oggi, sono il linguaggio del potere. E lasciarli in mano a pochi equivale a consegnare la sovranità a nuovi imperi digitali senza volto.
Serve una nuova stagione di cooperazione digitale, in cui le comunità diventino co-proprietarie dei dati che generano, esattamente come in passato lo erano dei frutti della terra. Solo così si può parlare di democrazia economica. Il principio di sussidiarietà, rilanciato da Leone XIV nel solco della Quadragesimo Anno, ci indica la via: spostare una parte del potere verso il basso, restituirlo ai territori, alle persone, ai lavoratori. Non più monoliti verticali ma costellazioni orizzontali, non più proprietà privata acquisita impropriamente dai potenti del digitale ma governance condivisa. È in questo intreccio tra democrazia del lavoro, sovranità digitale e sussidiarietà concreta che si gioca il futuro. Un futuro in cui non si chiede ai lavoratori solo di adattarsi, ma di partecipare alla scrittura del nuovo contratto sociale. Perché se i dati sono nostri, anche il futuro lo è. E questa volta, diversamente da quanto accadde ai Ludditi, abbiamo ancora tempo per costruirlo insieme.
Immagine: Fernand Léger – Les constructeurs (1950)
Raffigura operai che costruiscono un edificio in una prospettiva quasi meccanica, geometrica. Non c’è denuncia esplicita, ma un’ambivalenza profonda tra il corpo umano e la struttura industriale che lo assorbe. È la tensione tra uomo e macchina, produzione e soggetto.