Gli architetti definiscono ordinariamente la piazza «spazio differenziato nel contesto urbano, di sosta piuttosto che di passaggio, quindi dotato di particolare significato o attrattiva, talora adibito a funzioni caratteristiche». Una buona definizione di sintesi.
I social invece continuamente frequentati non sono più un posto di passaggio, interrompono la nostra routine di vita reale e con difficoltà torniamo altrove. E se il mercato funziona solo se c’è la chiesa e il municipio la relazione funziona solo se c’è fisicità, umori, odori e rumori. E non c’è nulla da fare il digitale tutto questo non riesce a trasmetterlo.
Dobbiamo riconoscere che i media digitali, i social network non sono le nuove piazze, le vie o i nuovi sagrati. Non sono neppure dei mezzi. Intesi come strumenti utili a raggiungere un fine. Non lo sono. Il mezzo è qualcosa di secondario cioè è susseguente alla libera determinazione del fine da raggiungere. E’ creato, introdotto a posteriori allo scopo di arrivare a un fine. Mezzi non lo sono mai stati e con l’avvento del digitale anche la definizione di McLuhan, – il medium è il messaggio – pare stretta. Perchè il filosofo canadese intendeva che il messaggio era definito da come era strutturato il medium. La sua organizzazione definiva il messaggio. Ma sempre di un’analisi intorno al mezzo si trattava. Ma qui e oggi i social e l’intelligenza artificiale non sono mezzi, sono delle decisioni. Decisioni prese nei nostri confronti prima che spetti a noi sapere cosa fare. Sono delle decisioni preliminari. Sono determinate da chi le fa e da chi le possiede. Code is law scriveva Lessig, uno dei padri del Web, in un bellissimo articolo del 2000. Il codice, che crea e organizza le piattaforme digitali, definisce i termini e le modalità con cui noi abitiamo il mondo digitale. L’insieme della tecnologia digitale è il nostro mondo, ma il mondo è un’altra cosa. La rivoluzione digitale ha creato questa asincronizzazione, il dislivello prometeico, come lo chiama il filosofo Anders, conosciuto purtroppo solo per essere stato un marito di Hannah Arendt, tra anima e tecnologia. E l’anima rimane sempre più indietro mentre il digitale corre aiutato dalla globalizzazione che non conosce i limiti nel del tempo ne dello spazio. Non siamo sincronizzati. Siamo l’umanità che arranca rispetto all’avanzare del digitale e dei suoi derivati partendo dal Web e dall’Internet delle cose. E non abbiamo i mezzi per recuperare. Siamo incapaci di stare al passo, sempre ammesso e non ne sono per nulla convinto che sia l’anima a dover recuperare. Siamo scimmie che per darsi un tono, per dissimulare questa condizione di inferiorità rispetto alla tecnologia teniamo in mano tutto il giorno uno smartphone, abitando sempre più i social, scaricando app spesso inutili. Il corpo dell’uomo non centra nulla con il corpo della tecnologia anche se pure la corte costituzionale americana da una mano alla tecnologia e al corpo dei suoi strumenti quando stabilisce che la polizia non può perquisire lo smartphone perchè è come se fosse una protesi dell’uomo. Lo strumento è altra cosa rispetto al corpo dell’uomo e non voglio pensare che ne sia un’estensione. Dobbiamo quindi riconoscere che Internet e mondo reale non sono la stessa cosa. Certo la prima cosa che sentite quando accade qualcosa di negativo o positivo sul Web è che non c’è da stupirsi, mondo reale e mondo virtuale sono ormai la stessa cosa. Ma non è così. Quando siamo nella rete siamo nella realtà. Non è vero. La rete è un mondo molto diverso, abitato si da persone fisiche con le stesse emozioni e sentimenti e che troviamo tutti i giorni anche al supermercato o al lavoro ma lì, nella rete vivono in un contesto completamente diverso. Vivono in un mondo dove le decisioni per tutti noi sono già state prese. Certo succede spesso anche nella realtà, ma lì abbiamo qualche possibilità in più di impedire che succeda. Definire quel mondo digitale è importante per non finire nel relativismo. Se costruiamo il perimetro del mondo del web, dell’intelligenza artificiale, della cultura digitale, se definiamo il suo contesto possiamo anche capirlo e farlo uscire dal relativismo di cui oggi è imperniato. La tecnologia digitale, tutta, può migliorare le condizioni dell’uomo se non va oltre la condizione dell’uomo. Se va oltre lo annienta perdendo anche lo scopo per cui è stata prodotta che è quello appunto di migliorare le condizioni dell’uomo. Un paradosso entropico. Il mondo digitale che abitiamo è quello delle decisioni prese e già date e queste decisioni per ora non riconoscono l’uomo come vulnerabile anzi cercano di eliminare queste caratteristica. Ma così facendo lo rendono disumano. Cosa sarebbe l’uomo senza la sua vulnerabilità. La vulnerabilità ci permette di riconoscere l’altro, il diverso, la relazione, per prenderci cura l’uno dell’altro. Senza la vulnerabilità l’uomo sarebbe un’altra cosa. Continua…
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Politica comportamentale, con Laura Lizzi.