In breve come Google e Facebook possono restituire il valore alle persone in cambio dei doni che tutti i giorni queste persone del mondo elargiscono loro?
Il titolo è la riproposizione nel 2016 di un saggio del 1833 di Carlo Afan de Rivera “Considerazioni sui mezzi da restituire il valore proprio ai doni che la natura ha largamente conceduto al Regno delle Due Sicilie”, saggio che si proponeva la ricerca di un metodo per restituire e garantire ai cittadini della Sicilia i doni che la natura aveva fatto a questa terra. Il periodo post feudale e il liberalismo illuminista del Settecento infatti avevano smantellato i demani e le proprietà collettive. Gli usi civici nascono da una lunga evoluzione storica che parte dal Medioveo in relazione al concetto di feudo. Terreni lasciati liberi agli abitanti che abitavano il territorio utilizzati per garantire bisogni economici primari come il pascolo , la legna e i frutta e verdura che cresceva spontaneamente. Afan e cosi come lui molti giuristi soprattutto meridionali si resero conto che nonostante questa rinuncia illuminista ai beni collettivi si dovesse garantire la sopravvivenza di un demanio civico non soltanto per motivazioni sociali per le classi più deboli, ma anche perché esso costituiva una ricchezza collettiva, non solo economica ma anche culturale e sociale.
Ma cosa sono le proprietà collettive? “Le proprietà collettive sono una risorsa goduta in forma collettiva e il cui uso è distribuito in maniera uguale tra i membri della comunità anche se il bene è posseduto in maniera indivisibile. E le proprietà collettive sono delle comunità o associazioni di uomini adattabili alle situazioni e al contesto in cui si trovano, con delle regole ben precise.” In Trentino ad esempio le prime proprietà collettive nascono per un limite tecnologico. Era impossibili dividere fisicamente le moltitudini di proprietà private dei pascoli. SI decidono quindi delle regole, si decide di amministrate i pascoli insieme e di rendere il bene indivisibile. In Toscana invece la bonifica di un territorio paludoso poteva essere intrapresa in epoca medievale solo da molte persone e nel corso di più generazioni; solo coloro i quali rendevano coltivabili quei terreni col proprio lavoro potevano dirsene proprietari e sfruttarli ad esclusione di qualsiasi altro, ma non potevano dividere tra loro il compendio così ottenuto, che fuori dal lavoro comune sarebbe ritornato presto preda delle acque. Ecco che compare il vincolo generazionale. Proviamo a vedere Google e Facebook e Twitter e tutti gli altri come dei grandi pascoli, essi stanno in un contesto o bene comune che è Internet, su cui la comunità investe il proprio talento, produce e utilizza conoscenza e dati. Possiamo continuare a affidare a queste grandi imprese il nostro futuro? Chi garantisce la generazionalità quindi la possibilità di utilizzare questi strumenti anche alle prossime generazioni? Il mercato, se G e FB continueranno a lavorare e investire bene, allora ci sarà un futuro per loro e per gli utenti del futuro. Ma è giusto affidare al mercato e ai CEO di queste piattaforme online il futuro delle prossime generazioni o è tempo di ricercare un nuovo modello e andare oltre? ll valore di queste piattafome non è tanto nella loro tecnolgia quanto nella conoscenza che viene prodotta dagli utenti su di esse. Allora le comunità che le creano ad esempio potrebbero essere chiamate da Google e gli altri a valorizzare questa loro produzione. E come? Magari con appropriazione originaria dei beni da parte di una collettività. E’ tempo di ragionare intorno a una disciplina raccolta in uno statuto della proprietà collettiva dei servizi primari di Internet per salvaguardare il futuro delle prossime generazioni.