E perché l’Europa che ha copiato il modello Silicon Valley non ce la farà.
Questi sono semplici appunti per un libro che sto scrivendo con la speranza che arrivino anche commenti che mi aiutino a capire meglio. Intanto per provare a capire l’intelligenza artificiale cinese sto partendo dalla storia di una delle sue città algoritmiche e digitali. In un luogo che, all’inizio degli anni Ottanta, non era niente più che un insieme di capanne di legno, una distesa di barche da pesca e un confine quasi invisibile con Hong Kong. Shenzhen, che oggi ha 15 milioni di abitanti, non è solo il simbolo della crescita cinese: è anche un organismo che nasce da una serie di episodi che sembrano usciti da una cronaca troppo materiale per essere mitologica e troppo determinanti per essere ridotti a note a piè di pagina. Tra questi, il più potente riguarda ciò che successe non nel centro della nuova Shenzhen, ma ai suoi margini, nei villaggi che la circondavano e che, invece di scomparire sotto la spinta della modernizzazione, si reinventarono come attori economici di una trasformazione che nessuno aveva previsto. Il caso di Yumin Village è forse il più emblematico: un villaggio rurale che, dopo aver aperto le proprie terre e la propria manodopera alle attività legate alla riforma, trasporti transfrontalieri con Hong Kong, logistica basilare, officine improvvisate, piccole fabbriche familiari, decise di non limitarsi a sopravvivere nell’ombra della nuova città, ma di diventare esso stesso un soggetto economico. Gli abitanti, riuniti in un’assemblea che oggi potremmo definire pre azionaria, fondarono una collective shareholding company, costruirono condomini da affittare ai nuovi migranti, investirono i ricavi in infrastrutture locali e trasformarono una comunità di pescatori e contadini in una delle prime forme di villaggio‑società della Cina contemporanea, anticipando un modello di capitalismo comunitario che avrebbe poi segnato l’intera regione.
Shenzhen è l’eresia originaria, l’atto di rottura che trasforma un villaggio in una città‑stato tecnologica, e soprattutto mostra che il motore dell’innovazione in Cina non è la pianificazione dettagliata dall’alto, ma la libertà estrema concessa a un territorio perché possa interpretare una direttiva centrale come se fosse un’opera aperta.
Nel 1980, quando Deng Xiaoping autorizza la creazione della prima Zona Economica Speciale, Shenzhen non è scelta perché abbia vocazione industriale o capitale umano: è scelta perché non ha nulla da perdere. E soprattutto perché c’è un uomo, Liang Xiang, che accetta una missione che nessun funzionario dell’epoca avrebbe avuto il coraggio di assumere: costruire un laboratorio economico senza precedenti, in cui le regole potevano essere inventate, mutate o annullate con la stessa rapidità con cui cambiava la marea che arrivava sulle sue coste.
Shenzhen è la prova vivente che l’innovazione cinese non nasce dal controllo ma dalla possibilità dell’azzardo istituzionale: un territorio che può reinventarsi quotidianamente, purché resti dentro la direzione generale stabilita dal centro. Ed è da questo gesto originario, un villaggio di pescatori trasformato in un laboratorio di capitalismo sperimentale, che si comprende tutto ciò che verrà dopo. Non serve anticipare qui il mosaico delle città: basta sapere che quella linea di fuga inaugurata da Shenzhen diventerà la grammatica stessa dello sviluppo cinese, spingendo ogni metropoli a immaginare un proprio modo di interpretare la direzione nazionale, un proprio linguaggio economico, una propria forma di rischio e sperimentazione.
È da questo punto che occorre partire per capire perché l’innovazione cinese sia inimmaginabile altrove. E perchè anche non dovremo paragonarla alla Silicon Valley, è tutta un’altra storia. Nella Silicon Valley raccontano l’innovazione come una questione di capitale di rischio, libertà individuale, creatività spontanea, ma basta spostare lo sguardo un po’ più a Oriente per capire che c’è un paese in cui la trasformazione non nasce dal genio dell’imprenditore e nemmeno dalla benevola mano invisibile del mercato, ma da una macchina politico-amministrativa che ha fatto dell’adattamento competitivo la propria architettura interna, trasformando ogni città in un laboratorio aggressivo di sperimentazione, ogni sindaco in un manager sotto pressione permanente, e ogni errore in una variabile di apprendimento istituzionale invece che in un fallimento da censurare o nascondere.
Prima di arrivare al centro del ragionamento è necessario esplicitare ciò che regge l’intero edificio: i sei pilastri strategico‑politici della governance cinese, ciascuno definito da un termine tecnico preciso e da una pratica amministrativa che non ha equivalenti fuori dalla Cina. Tantomeno nella Silicon Valley.
Una direzione centrale unificata: è il centro politico che non impone procedure, ma definisce obiettivi nazionali vincolanti.
Il decentramento esecutivo: province, città e contee dispongono di ampia autonomia nell’attuazione, trasformando le direttive centrali in modelli locali distinti e spesso divergenti.
La sperimentazione pilota: ogni riforma nasce in forma limitata, parchi hi‑tech, sandbox fiscali e solo ciò che funziona viene scalato.
La competizione inter‑governativa: i territori competono come aziende, usando incentivi, terreni, fiscalità e politiche industriali personalizzate per superarsi a vicenda.
Il sistema di valutazione dei quadri: i funzionari vengono giudicati con metriche che evolvono nel tempo, prima PIL, poi stabilità sociale, ambiente, innovazione, qualità della crescita e le promozioni sono legate ai risultati.
Un adattamento istituzionale continuo: il sistema accetta l’errore, corregge rapidamente, assorbe le deviazioni locali e trasforma la varietà in resilienza.
Sono questi sei elementi, intrecciati come un’unica struttura organica, a rendere possibile ciò che nessun sistema occidentale riesce più a generare: un’innovazione istituzionale permanente, distribuita, competitiva, e allo stesso tempo coerente con una direzione centrale. Poi ci sono altri quattro elementi che rendono chiaro che l’innovazione cinese non nasce da una libertà assoluta, ma da una libertà condizionata, un gioco tra autonomia locale e responsabilità centrale, in cui gli errori sono ammessi, ma le derive di sistema vengono tagliate alla radice. È dentro questo equilibrio instabile, dentro questa tensione tra il possibile e il consentito, che si forma la forza adattiva della modernizzazione cinese.
Il ruolo correttivo del centro: ogni decentramento cinese vive dentro recinti normativi che il centro ridefinisce periodicamente.
La gara a due livelli: la competizione non è solo orizzontale tra città, ma verticale tra distretti, municipalità e province.
Il sistema fiscale come motore della competizione: il vero shock istituzionale avviene con la riforma fiscale del 1994, che centralizza la gran parte delle entrate ma lascia ai governi locali l’onere di finanziare servizi, infrastrutture e crescita.
La trasmissione dell’innovazione istituzionale: la Cina non diffonde le best practice con libri bianchi o conferenze accademiche, ma attraverso dispositivi di mobilità politica e documenti interni.
È questo sforzo individuale e territoriale, incastonato in un sistema di incentivi che premia l’audacia e anche la spregiudicatezza con la capacità di creare risultati misurabili, a produrre la geografia contemporanea delle specializzazioni: Shenzhen hardware e manifattura avanzata, Hangzhou capitale del digitale e del fintech, Shanghai polo dei semiconduttori e della biotecnologia, Pechino cervello della governance algoritmica e dell’intelligenza artificiale. Wuhan, la città delle acciaierie e delle università antiche ma anche uno dei poli nazionali della optoelettronica, dei supercalcolatori, dei network di telecomunicazione avanzata e della biotecnologia applicata. Ogni città diverge perché deve divergere, perché il sistema la premia se trova una strada che funziona meglio delle altre e la punisce solo quando resta immobile.
Il risultato è una forma di innovazione che non nasce dalle startup, dai venture capitalist, dai guru tecnofili o dalle grandi aziende private, ma dal movimento continuo di una burocrazia strutturata come un corpo pluricellulare, in cui ogni distretto compete con gli altri per sopravvivere, prosperare, ascendere, e in cui la carriera di un sindaco è inseparabile dal numero di imprese che ha attratto, dal grado di sperimentazione tecnologica che ha favorito, dalla capacità di piegare la linea nazionale a un modello locale originale senza mai violarne la direzione strategica.
Ma è necessario riconoscere anche l’altra faccia della competizione tra città, troppo spesso rimossa dalle letture celebrative sulla velocità cinese. La gara permanente tra municipalità ha generato forme estreme di sovracapacità industriale, in particolare nell’acciaio, nel cemento, nei pannelli solari; ha alimentato bolle speculative cicliche, in cui i terreni venivano rivalutati più rapidamente della domanda reale; ha prodotto una devastazione ambientale che solo negli anni più recenti è stata affrontata con strumenti regolativi e punitivi adeguati; ha basato la crescita su un esercito di lavoratori migranti privi di pieno accesso ai diritti urbani; e ha lasciato in eredità un debito locale che resta una bomba a orologeria, nonostante i continui interventi di rifinanziamento. Nulla di diverso, in fondo, nei problemi che osserviamo nelle città europee, statunitensi o sudamericane.
Per capire davvero perché la Cina innova a una velocità che ci appare inaccessibile, dovremmo smettere di guardare solo alle tecnologie e al capitale, dimenticare la Silicon Valley e iniziare a guardare alle istituzioni, non nel senso astratto delle teorie politiche, ma nel senso concreto dei meccanismi di incentivo, delle metriche di valutazione, delle catene di comando e delle aree di autonomia che permettono a un sistema politico centralizzato di funzionare come un ecosistema di città-Stato in guerra permanente tra loro per interpretare meglio di tutte una stessa direzione nazionale.
Forse l’innovazione cinese è inimmaginabile altrove proprio perché altrove manca ciò che la Cina ha imparato a usare come un’arma evolutiva: una concorrenza interna che non distrugge il sistema, ma lo costringe ad adattarsi senza sosta, trasformando la burocrazia nel più improbabile degli acceleratori tecnologici. E all’Europa tutto questo manca certamente.
Immagine: il Tempio di Tianhou