C’è chi guarda a Peter Thiel con terrore, come se fosse l’incarnazione perfetta del nuovo Leviatano algoritmico e chi lo osserva con ammirazione, vedendo in lui il precursore di una verità scomoda. La democrazia, così com’è oggi, non funziona più e va rimossa per fare spazio a forme più rapide di comando. Thiel non è solo: con lui ci sono Marc Andreessen, Alex Karp, Sam Altman, Elon Musk e una costellazione di investitori, imprenditori e teorici del longtermismo che condividono la stessa visione: accorciare il processo democratico, eliminare la mediazione, sostituire il consenso con la previsione computazionale. Non vogliono più solo governare il mondo: vogliono costituirlo da zero, con i loro codici, le loro infrastrutture, le loro aziende.
Ma c’è un inganno e non è tra chi li teme e chi li idolatra. È il terzo fronte, forse il più insidioso, popolato da coloro che si presentano come difensori della democrazia mentre, in realtà, proteggono solo le sue impalcature formali ormai svuotate di forza rappresentativa e di capacità trasformativa. Non difendono la democrazia perché vogliono migliorarla, ma perché temono di perdere il poco potere residuo che ancora le passa attraverso. E così si oppongono non tanto ai nuovi oligarchi digitali, quanto a chi propone di superare entrambi gli orizzonti: quello del dominio algoritmico e quello dello Stato delegittimato. In questa difesa di ciò che non funziona più, rifiutano anche l’idea che sia possibile costruire altro. Ma quel “possibile” è esattamente ciò che va rimesso in campo.
Sono intellettuali, fondazioni, accademie, media e commissioni. Si preoccupano che Thiel attacchi la democrazia, ma fanno finta di non vedere che la democrazia è già stata disinnescata. Non da un golpe spettacolare, ma da una serie di trasformazioni lente e convergenti: la fossilizzazione dei metodi, l’autoreferenzialità delle istituzioni, la cattura della politica da parte di interessi consolidati e certo il tecnocapitalismo e le sue tecnologie. E tutto questo ha reso la democrazia incapace di immaginare altro da sé. Thiel con la sua tecnocrazia privatizzata, partiti e istituzioni e gli altri con il loro armamentario normativo, le loro procedure, la loro incapacità di generare visione e la loro brama di mantenere forme di potere: due facce della stessa superstizione. Due modalità opposte, ma complementari, di rimuovere la voce dei molti. Entrambe verticali, impermeabili al conflitto reale, indifferenti alla voce delle comunità.
Eppure oggi qualcosa si muove. Una breccia si apre proprio dentro il dominio tecnologico, dove sembrava tutto già deciso. Oggi ci sono le condizioni materiali per immaginare e costruire un’altra via. Non una terza via moderata, conciliatoria, ma una via laterale, costituente, che non media tra i due poli, ma li diserta entrambi.
Se oggi è ancora possibile pensare una forma istituzionale nuova, più veloce, più cooperativa, più legittima, è anche perché disponiamo, per la prima volta, di strumenti tecnici capaci di sostenere questa ambizione. Tecnologie nate dentro il dominio, ma che possono essere rovesciate.
L’intelligenza artificiale, se progettata collettivamente, può diventare uno strumento di interrogazione distribuita, di rafforzamento delle capacità cognitive dei territori. La blockchain, se liberata dalla speculazione e restituita al senso originario di registro condiviso, può garantire memoria pubblica, fiducia tra pari, orizzontalità delle decisioni.
E poi c’è Internet. Certo non è più neutra, né semplicemente disponibile. Ma è diventata il campo di battaglia decisivo: l’intelligenza artificiale la sta rimodellando dalle fondamenta. Cambia il modo in cui i contenuti vengono indicizzati, le relazioni mediate, le comunità aggregate, le informazioni filtrate. Ogni protocollo guidato da AI riscrive la forma stessa della rete. La promessa di Internet come spazio cooperativo, distribuito, orizzontale, non è solo minacciata: è in fase di riscrittura.
Eppure proprio qui si apre una possibilità. La forma Stato è superata, non per ideologia ma per inadeguatezza strutturale. E al suo posto possono nascere: infrastrutture condivise (il piano materiale), governance federate (il piano istituzionale) e istituzioni algoritmiche pubbliche (il piano cognitivo). Ridare forza a Internet oggi significa riconoscerla come il centro politico da cui potrebbe ripartire un nuovo ordine. Non serve più uno Stato con confini fisici: serve una rete con infrastrutture condivise, governance federate, istituzioni algoritmiche, strumenti di deliberazione, algoritmi trasparenti: è su questi piani che si può rifondare una politica all’altezza del presente. Non parliamo più di comunità locali in astratto. Parliamo di federalismo infrastrutturale, cognitivo e culturale. Non è una suggestione semantica, è un programma istituzionale che coinvolge reti, dati, saperi e alleanze territoriali. Un progetto per far tornare le comunità protagoniste del proprio futuro, non per rappresentanza, ma per infrastruttura. Internet è quell’infrastruttura che può permettere alle comunità di tornare centrali nel proprio destino, di riappropriarsi dei processi decisionali, cognitivi e relazionali che oggi subiscono. Significa togliere Internet dalle mani delle piattaforme e restituirla ai mondi che la abitano.
Non per ritrovare l’infrastruttura militare da cui è nata, non il deserto estrattivo delle piattaforme che l’hanno colonizzata, ma quell’altra internet, che nei suoi inizi aveva il respiro dei commons: spazio relazionale, infrastruttura di libertà, orizzonte di connessione tra soggettività diverse, informazione plurale e disponibile a chiunque. Internet non è perduta. Può ancora essere riconquistata e trasformata in campo costituente.
Non voglio difendere la democrazia liberale. La democrazia non era un fine, ma un codice, un dispositivo politico per far funzionare gli Stati e le istituzioni nate in un’epoca precisa, con strutture centralizzate, confini stabili e forme di rappresentanza che oggi non reggono più. Se gli Stati stanno dissolvendosi nella realtà delle reti, delle piattaforme e delle alleanze geopolitiche digitali, quel codice ha perso funzione. Difenderlo in quanto tale è un atto vuoto e non basta evocarlo per salvarlo. La democrazia che oggi si agita nei panel, nei documenti programmatici, nei codici deontologici è una retorica di copertura: ha già abdicato al proprio compito. Non garantisce più giustizia, non redistribuisce potere, non custodisce alcun vivente. Eppure viene brandita come scudo ideologico contro chi prova a costruire altro.
E non ammiro Thiel. Non perché è troppo radicale, ma perché non lo è affatto: vuole solo sostituire un’oligarchia con un’altra. Più veloce, più arrogante, più predittiva. Nessuna liberazione, solo accelerazione del dominio.
Provo a immaginare di stare da un’altra parte, dove il potere si costruisce insieme, non si eredita. Un posto dove le infrastrutture si contendono, non si subiscono e dove la tecnologia non viene idolatrata né rifiutata, ma è riconvertita in bene collettivo. L’Internet come nuova grande opportunità, non più una piattaforma di estrazione, ma una una rete viva di intelligenze in alleanza. Un tessuto di soggettività capaci di domandare, decidere, convivere. La prima volta l’abbiamo consegnata nelle mani sbagliate e non possiamo permetterci di ripetere quell’errore. Riprendere Internet e riprogettarla come bene collettivo è un compito immenso, ma necessario. E soprattutto non riguarda solo noi: è una responsabilità transgenerazionale, perché ciò che oggi abitiamo determinerà il mondo che lasceremo. Chi non accetta il mondo così com’è non si limita a criticarlo ma lo reinventa, possibilmente insieme.
Immagine: 1968. Il team che ha sviluppato ARPANet, il predecessore di Internet. Truett Thatch, Bill Bartell, Dave Walden, Jim Geisman, Robert Kahn, Frank Heart, Ben Barker, Marty Thrope, Will Crowther, Severo Ornstein.