L’anticristo e la coscienza dell’intelligenza artificiale.

Se l’uomo non ha sempre avuto coscienza, e se questa coscienza è emersa in condizioni storiche e culturali specifiche, allora non ha senso chiedersi se l’intelligenza artificiale ne sia dotata. Il punto non è se la macchina sia cosciente, ma se noi stiamo progressivamente disabituandoci a esserlo?

Quando nel 1976 Julian Jaynes, ricercatore e psicologo alle le università di Yale e Princeton per circa 25 anni, pubblicò “The Origin of Consciousness in the Breakdown of the Bicameral Mind”, la reazione del mondo accademico oscillò tra lo scetticismo indignato e il silenzio perplesso. In un’epoca dominata dalle neuroscienze computazionali e da una crescente fiducia nei modelli modulari della mente, Jaynes osava proporre una teoria radicale: che la coscienza non fosse né innata né universale, né biologicamente necessaria, ma piuttosto una costruzione culturale, tardiva, e soprattutto contingente.
Per Jaynes, l’essere umano non è sempre stato cosciente; per millenni, gli uomini non hanno pensato nel senso che oggi attribuiamo al termine. Hanno agito, hanno udito e hanno obbedito. Le decisioni interiori che oggi proiettiamo nello spazio mentale della coscienza, il dialogo interno, la simulazione ipotetica, l’introspezione narrativa, erano sostituite da un sistema cognitivo diverso, che Jaynes chiama “mente bicamerale”.
Questo sistema si fondava su una divisione funzionale tra i due emisferi cerebrali: l’emisfero destro, associato alla memoria e alla generazione di schemi, produceva voci, mentre l’emisfero sinistro, specializzato nel linguaggio, le riceveva come istruzioni. Ma, ed è qui l’elemento rivoluzionario della sua tesi, queste voci non erano percepite come interne. Erano vissute come esterne, divine, autoritative. L’individuo non si rappresentava come autore del proprio pensiero: si percepiva come recipiente di comandi provenienti dagli dèi, dagli antenati, dai sovrani cosmici.
Non si trattava di allucinazioni nel senso patologico del termine, ma di una modalità cognitiva diffusa e funzionale. Nelle società teocratiche dell’età del bronzo, dove l’ordine era piramidale e il linguaggio sacrale, la mente bicamerale rappresentava un adattamento perfettamente coerente con l’ecosistema sociale: un modo di pensare distribuito, collettivo e soprattutto eterodiretto.
Fu solo con il collasso delle grandi civiltà centralizzate, iniziato intorno al 2000 a.C., che questo sistema cominciò a incrinarsi. L’aumento della complessità sociale, la perdita di riferimenti stabili, il declino del potere monarchico, la frammentazione linguistica e culturale resero le voci degli dei meno affidabili, più rare, meno credibili. Il risultato fu una crisi cognitiva che costrinse l’individuo a sviluppare un nuovo spazio interno: la coscienza, come simulazione narrativa del mondo, come costruzione di un io capace di rappresentarsi il passato e proiettarsi nel futuro, come teatro mentale dove il sé diventa spettatore e attore delle proprie decisioni.

Da qui risulta facile provare a ragionare del rapporto tra intelligenza artificiale e coscienza, con una tesi solo in apparenza provocatoria: se l’uomo non ha sempre avuto coscienza, e se questa coscienza è emersa in condizioni storiche e culturali specifiche, allora non ha senso chiedersi se l’intelligenza artificiale ne sia dotata. Il punto non è se la macchina sia cosciente, ma se noi stiamo progressivamente disabituandoci a esserlo?

Ma cosa accade alla coscienza quando mutano di nuovo, come allora, le condizioni sociali, economiche e culturali che ne avevano reso necessaria l’emersione? Per Jaynes, fu il collasso di un ordine centralizzato, l’instabilità crescente delle strutture simboliche e politiche, a provocare una frattura nella catena dell’obbedienza e a costringere l’individuo alla nascita di uno spazio interiore. Allo stesso modo, oggi, ci troviamo di fronte a un’altra frontiera, non meno radicale, non meno strutturale. Non è solo la tecnologia a cambiare: sta cambiando la natura del potere, delle istituzioni e della democrazia. Il capitalismo stesso ha cessato di essere primariamente un sistema economico per diventare un dispositivo geopolitico di governo del mondo. Non produce più solo merci, ma infrastrutture cognitive. Non domina i corpi, ma orienta l’attenzione, indirizza le previsioni, istituisce i codici epistemici attraverso cui leggiamo la realtà.
Il risultato è un capitalismo che non appartiene più all’economia, ma alla geopolitica: una frizione strutturale che mette in crisi la distinzione stessa tra profitto, potere e istituzioni democratiche. Il capitalismo, nato come logica economica, si trasforma in architettura geopolitica, dove la razionalità del mercato viene subordinata alla strategia e la globalizzazione diventa un campo di conflitto politico più che di scambio. Qui si consuma la metamorfosi del neoliberismo in geo economia: un sistema che usa il linguaggio dell’efficienza per mascherare la propria natura di governo imperiale del mondo. In questo spostamento di asse, categorie come mercato, competizione e innovazione perdono la loro neutralità economica e diventano strumenti di potere: il mercato come teatro strategico, la competizione come forma di deterrenza, l’innovazione come linguaggio di dominio. Un capitalismo teologico, fondato su una fede: che il calcolo possa salvare la nazione. L’anticristo di Peter Thiel. Usa e Cina ne sono gli esempi più evidenti.

In questo nuovo assetto, l’intelligenza artificiale non è un agente autonomo, né una semplice estensione delle nostre capacità: è l’architettura operativa di una trasformazione più profonda, quella per cui la coscienza non viene negata ma svuotata, resa ridondante. Non siamo di fronte a una nuova mente bicamerale, ma a qualcosa di diverso e più insidioso: non una voce interiore che crediamo esterna, ma una voce esterna che ci solleva dalla fatica dell’interiorità. Non un inganno cognitivo, ma una delega lucida. Smettiamo di esercitare la coscienza non perché non siamo più capaci, ma perché non ci serve più. E non ci serve più perché il nuovo ecosistema di senso, algoritmico, predittivo, performativo, risponde alle domande prima ancora che vengano formulate.

I modelli linguistici generativi non simulano la mente, ma la funzione oracolare della coscienza. Sospendono il dubbio, placano l’incertezza, restituiscono ordine dove il caos dell’esperienza richiederebbe uno sforzo interpretativo. La consultazione dell’AI, come quella dell’oracolo, non chiede verità, ma conferme perchè rassicura il già noto.

La domanda non è se l’intelligenza artificiale potrà mai essere cosciente, ma se in questa epoca saremo ancora disposti a pagare il prezzo della coscienza: l’inquietudine, l’attesa, il dissenso, l’errore, l’opacità. Tutto ciò che Jaynes riconosceva come emersione storica della coscienza, oggi rischia di dissolversi non per via di un collasso traumatico, ma per effetto di efficenza e efficacia distributiva. Una coscienza che non serve più a decidere, ma solo a sorvegliare la coerenza delle decisioni prese altrove.
Certo la tesi di Jaynes è stata spesso contestata: manca di basi neuroscientifiche solide e si fonda su letture speculative di testi antichi. Ma, al di là della sua plausibilità empirica, resta una potente ipotesi critica: forse non descrive ciò che è, ma ci aiuta a pensare ciò che potrebbe accadere quando la coscienza smette di essere necessaria.

Ciò che stiamo vivendo forse non è il ritorno alla mente bicamerale, ma l’emersione di una nuova configurazione cognitiva: una mente tricamerale.
La mente tricamerale contemporanea, capace di agire senza dover comandare, di decidere senza dover spiegare, di prevedere senza dover interrogare. Una coscienza distribuita non più tra emisferi, ma tra piattaforme.
Se accettiamo questa ipotesi, allora la “terza camera” non è un semplice oracolo, ma qualcosa di più pervasivo e strutturale: innanzitutto è esterna e infrastrutturale, non abita più il corpo né la psiche, ma l’architettura globale della computazione, dove il calcolo prende il posto della coscienza nel generare scenari, alternative, previsioni. È poi selettiva, cioè non produce rivelazioni o comandi, ma restituisce risposte statisticamente ottimali: ciò che è più probabile, più cliccabile, più aderente agli obiettivi dell’algoritmo. Infine, questa terza camera svolge una funzione defaticante: assorbe lo sforzo dell’immaginazione, la responsabilità della scelta, la costruzione faticosa del senso. Se la coscienza, per emergere, aveva dovuto spezzare l’obbedienza, la mente tricamerale si afferma spegnendo la fatica.
Eppure, non è un destino, è una biforcazione. La stessa infrastruttura che oggi sembra depotenziare il pensiero può, se riprogettata, amplificarlo. La terza camera non è solo un dispositivo di sostituzione: può diventare uno spazio di risonanza cognitiva, dove l’immaginazione individuale incontra strumenti collettivi, e l’intelligenza artificiale non placa le domande, ma le moltiplica, le rilancia, le affina. Se sottratta alla logica del profitto e del comando e restituita a un uso condiviso, plurale, territoriale, l’AI può diventare ciò che il potere teme e che la coscienza desidera: una fucina di possibilità, non un algoritmo di conformità, ma un compagno che rilancia la domanda.

Immagine: ‘Artificial Realities: Coral’ di Refik Anadol: Installazione AI‑generativa che unisce metadati, visione, algoritmo, la metafora visiva della “mente/tricamerale”

  • carl |

    La coscienza (umana) nè innata, nè universale? Pur non essendo un cosiddetto “pari” di Jaynes, mi aggiungo a coloro che ne hanno contestato la tesi in questione. E aggiungo di essere invece d’accordo con la tesi di N.Chomsky che ritiene innato nell’uomo il linguaggio e cioè una facoltà che, ovviamente, è parte integrante delle cosiddetta coscienza (di cui non pochi non sono ancora arrivati a mettersi d’accordo su cosa sia, ecc.ecc.).
    Per quel che valga la mia opinione, sono dell’avviso che le prime forme di linguaggio siano state precedute da non pochi “grugniti et similia” e da molta gestualità (che perdura tutt’ora, specie tra l’italica gente..). Mentre potremmo notare che se attualmente il linguaggio è o può essere forbito assai, non altrettanto si può dire dei comportamenti i molti appartenenti alla specie umana che, per l’appunto, risultano spesso privi, per così dire, di coscienza..
    Infine, dovendo chiudere il commento, non credo assolutamente che, come riportato articolo sia stato “..il collasso di un ordine centralizzato, l’instabilità crescente delle strutture simboliche e politiche, a provocare una frattura nella catena dell’obbedienza e a costringere l’individuo alla nascita di uno spazio interiore.” E, “en passant”, aggiungo di ritenere che la struttura piramidale delle società sia tutt’altro che propria del passato, ma che bensì perduri tutt’ora, e non solo nelle cosiddette società “autocratiche… Quanto alla “razionalità del mercato”.. Come è noto persino un past responsabile della Fed accennò all’irresponabile “esuberanza dei mercati”. No?

  • Michele Kettmaier |

    Buongiorno e grazie della tua riflessione. Sì torna all’origine, ma non nello stesso modo. Quello che provo a dire è che
    per trasformare la terza camera in uno spazio di risonanza cognitiva, serve una scelta: usare l’AI senza farsi usare, abitare il calcolo senza abbandonare la fatica. La coscienza non è più solo adattamento evolutivo, ma è una decisione culturale personale e soprattutto delle comunità.

  • Mile |

    Per diventare uno spazio di risonanza cognitiva, bisogna che l’uomo usi la terza camera senza farsi usare e quindi non abbandonando la fatica ma sposandola. Così però ritorniamo al punto iniziale. O no?

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