L’intelligenza artificiale che ci fanno usare

L’intelligenza artificiale è una ricodifica profonda del Web stesso, che da spazio esplorabile diventa fonte da comprimere e ricombinare. Non più una rete da attraversare, ma una memoria da addestrare. L’AI che ci fanno usare funziona, in questo senso, come leva simbolica per tenere in movimento un’economia che ha sempre meno appigli nel mondo reale. È il nuovo strato mitologico del capitale: l’apparenza di un’intelligenza sovrumana a cui affidare le sorti della razionalità collettiva.

In questi giorni la cronaca registra i primi segni di cedimento nel mondo finanziario della grande tecnologia: non uno schianto catastrofico, ma crepe sottili, oscillazioni nei titoli, timori sussurrati.
È come se il castello fatto di promesse,  promesse di crescita infinita, di dominio cognitivo, di ritorni automatici, iniziasse a perdere la sua impermeabilità. Non è ancora il crollo ma è la frattura e il problema non è tanto che esista una bolla dell’intelligenza artificiale. È che si moltiplicano i segnali che qualcosa di più profondo, e forse di più irrimediabile, si è rotto nel sistema che per secoli ha legato crescita, innovazione e valore. Che molte delle grandi aziende del settore tecnologico investano massicciamente nell’intelligenza artificiale senza ancora mostrare ritorni economici proporzionati agli sforzi, non dovrebbe sorprendere più di tanto: ogni rivoluzione ha un suo costo iniziale, dicono, ogni salto tecnologico ha bisogno di fede, rischio, leva. Ma qui non si tratta di investimenti in vista di un orizzonte produttivo, bensì della messa in scena di una finzione contabile collettiva, in cui il valore non dipende più da ciò che la tecnologia produce, ma da ciò che promette. Nvidia cresce, una delle poche big tech nella sofferenza finanziaria di molte, non perché il mondo ha bisogno di più calcolo, ma perché tutto il sistema ha bisogno che il calcolo continui ad apparire inevitabile. E se questo significa prestare denaro a chi comprerà le tue GPU, lo si fa. Il modello non è produttivo, ma circolare; è una spirale, più che un ciclo.

Le dinamiche di investimento nel settore dell’intelligenza artificiale sembrano oggi spesso fondate su una logica di anticipazione e autofinanziamento: grandi accordi per infrastrutture vengono sottoscritti sulla base di proiezioni future, in uno scenario in cui la sostenibilità economica non sempre è garantita da una domanda già attiva. Aziende e startup, da quelle che sviluppano modelli a quelle che forniscono infrastrutture, agiscono dentro un ecosistema dove le risorse circolano più per mantenere alte le aspettative che per rispondere a una redditività immediata. In certi casi, il ciclo appare chiuso: si investe perché si presume che altri investiranno, si costruisce valore sulla promessa di una crescita che deve ancora manifestarsi pienamente. Non è una novità assoluta: è un meccanismo noto in ogni fase di trasformazione tecnologica, ma oggi assume una dimensione sistemica che interroga la tenuta a lungo termine dell’intero settore. E in questo schema, la tecnologia non è più un mezzo, ma una garanzia simbolica: una narrazione che permette al denaro di restare in circolo. È  il proseguimento, con altri mezzi, di un modello che ha attraversato l’intera modernità occidentale, ripetendo, ogni volta con nomi diversi, lo stesso rito: dichiarare una nuova rivoluzione, gonfiare l’aspettativa, costruire infrastrutture più grandi dei bisogni, indebitarsi fino al limite, crollare, ripartire.

Nel 1873 furono le ferrovie degli Stati Uniti d’America, simbolo di una rete fisica che per la prima volta unificava territori distanti e ridefiniva il tempo stesso del viaggio e dello scambio. Ma fu anche una stagione di eccesso finanziario, costruzione accelerata, debito incontrollato: un’espansione infrastrutturale che precedeva la domanda e che in molti casi si rivelò insostenibile, generando bolle speculative e panico finanziario. Come oggi, il capitale inseguiva un orizzonte immaginario, anticipando bisogni che non si erano ancora formati. Non fu solo una tecnologia: fu la nascita di una nuova percezione dello spazio. (riprendo questo concetto più avanti per spiegarmi meglio).  Nel 1929 l’automobile e la produzione in serie imposero un altro ritmo alla vita moderna, trasformando la città, la fabbrica, l’abitare. Non era solo il motore a scoppio: era un ecosistema. Nel 2000, la bolla di Internet esplose dopo aver promesso accesso, democrazia, disintermediazione. Ma anche lì, sotto l’enfasi speculativa, restavano infrastrutture: fibre, data center, nuovi regimi del sapere. Nel 2008, con la crisi dei mutui subprime, si vide cosa accade quando il credito viene trattato come prodotto replicabile: il denaro non era più misura del lavoro, ma simulazione di fiducia. Ogni volta si è ripetuto, seppur semplificando e riconoscendo contesti diversi,  lo stesso dispositivo: una promessa tecnologica in grado di tenere in piedi un ciclo economico in esaurimento, una fede salvifica nella tecnica come anestetico della crisi. Beh certo il progresso. Ma ogni volta c’era, sotto quella promessa, un cambiamento reale: le ferrovie trasformavano lo spazio, l’auto trasformava il corpo e il tempo, l’elettricità la notte, la lavatrice la libertà delle donne, il frigorifero la catena alimentare, Internet, anzi meglio il Web, le reti della conoscenza. Erano rivoluzioni materiali, che ridefinivano condizioni di possibilità. L’AI, oggi, non è questo; non è il motore a scoppio del XXI secolo, né una rivoluzione che si misuri immediatamente in nuove infrastrutture visibili. Ma è qualcosa di radicalmente diverso: una macchina semiotica?, statistica, che agisce non sulle cose, ma sui segni. Una macchina che elabora, sintetizza, prevede, disambigua, condensa. La sua forza non è nella trasformazione fisica dello spazio, ma nella ristrutturazione massiva del paesaggio cognitivo. È una tecnologia che automatizza l’accesso, la produzione e la manipolazione del sapere, e proprio per questo la sua portata va capita in profondità: è una ricodifica profonda del Web stesso, che da spazio esplorabile diventa fonte da comprimere e ricombinare. Non più una rete da attraversare, ma una memoria da addestrare. È fondamentale non considerare questo passaggio come inevitabile o neutro: non si tratta di una semplice evoluzione tecnica, ma di una scelta strutturale e politica sul modo in cui pensiero, linguaggio e conoscenza devono essere organizzati e resi disponibili. Anche se non produce una nuova materia prima, riorganizza il rapporto tra linguaggio e potere, tra conoscenza e controllo. Non genera nel senso in cui si genera una scoperta, ma riorganizza per ora ciò che già esiste. Ma ridurre tutto questo e ridurla a un semplice esercizio di superficie sarebbe fuorviante: l’automazione su larga scala di compiti cognitivi, nella sanità, dalla programmazione elementare all’assistenza legale, dalla traduzione al customer service,  sta già producendo trasformazioni profonde nella struttura economica e nelle gerarchie del lavoro. La sostituzione, la ristrutturazione, l’ibridazione dei ruoli professionali sono effetti materiali, con ricadute dirette sul valore, sul tempo, sull’organizzazione delle istituzioni e delle competenze. Una rivoluzione che incide sui costi, sui ritmi e sulle configurazioni del lavoro è, di fatto, una rivoluzione materiale, anche se non ha la fisicità di una ferrovia. 

Eppure, proprio perché tutto cambia per non cambiare nulla, l’AI viene oggi caricata della missione di cambiare tutto. È uno dei paradossi tragici di questo tempo; mentre le società reali si svuotano, molte culture decrescono e scompaiono, la produttività ristagna, la distribuzione della ricchezza si polarizza, il capitale trova rifugio in ciò che ha l’aspetto del nuovo, ma non ne ha la sostanza. L’idea che siamo all’alba di una nuova rivoluzione industriale è oggi più una proiezione ideologica che una diagnosi fondata: ciò che si è esaurito non è tanto il capitale in sé, quanto la sua capacità di agire come forza realmente generativa. Se nel 1873 il capitale investiva per creare infrastrutture che ridefinivano lo spazio-tempo delle società umane, oggi si concentra su circuiti chiusi del digitale, dove il ritorno è finanziario prima ancora che sociale o produttivo. La differenza non sta nella quantità di denaro, ma nel tipo di mondi che quel denaro è ancora in grado di rendere possibili. Il capitale novecentesco forse apriva, ma il capitale odierno certamenete ricicla. Lo sviluppo lineare è finito, lo spazio da colonizzare è finito e il desiderio da mobilitare è saturo. E allora si inventa un futuro che non c’è; si investono migliaia di miliardi in data center che bruciano energia, rame, terre rare, memoria. Questa enorme infrastruttura introduce una nuova materialità nel mondo: ridefinisce i flussi energetici, ristruttura l’allocazione del capitale fisico, intensifica la dipendenza da filiere geopolitiche e risorse critiche. Non si tratta soltanto di surplus senza materia, ma di un nuovo regime materiale, energetico e territoriale che sta già riconfigurando i rapporti tra tecnologia, ecologia e potere; una nuova e potente religione del calcolo in un mondo già interamente computato. 

Tutto ciò non significa che l’intelligenza artificiale non serva a nulla, ma impone di riconoscere che oggi è diventata uno dei principali contenitori di una fede che il sistema finanziario ha sempre coltivato. E la fiducia nella possibilità che il futuro continui a generare valore, anche quando i fondamentali produttivi vacillano. L’intelligenza artificiale che ci fanno usare funziona, in questo senso, come leva simbolica per tenere in movimento un’economia che ha sempre meno appigli nel mondo reale. È il nuovo strato mitologico del capitale: l’apparenza di un’intelligenza sovrumana a cui affidare le sorti della razionalità collettiva. Ma questa funzione ideologica non può oscurare la realtà tecnica e politica delle macchine. Non si deve confondere la critica al capitalismo con una critica alla tecnologia stessa. L’intelligenza artificiale può essere un vettore di accumulazione e controllo, ma può anche diventare uno strumento di cooperazione, conoscenza distribuita, giustizia cognitiva. Tutto dipende dalle infrastrutture che la sorreggono, dalle mani che la modellano, dalle istituzioni che ne determinano l’accesso, la direzione, lo scopo. Il conflitto è politico, non ontologico;  non siamo solo di fronte a una bolla, siamo di fronte alla fine di un paradigma. Quello che ha fatto coincidere per tre secoli sapere, tecnica, capitale e dominio. E forse poco importa capire se esploderà, ma quanto sarà profonda la voragine quando cadrà, e soprattutto, se ci saremo preparati a pensarci fuori.

Ormai è evidente, il nucleo non è come regolare l’AI ma cosa vogliamo sapere insieme e come. Il futuro non lo decidono gli algoritmi, ma i criteri e qualsiasi cosa succeda i criteri sono sempre politici. Se vogliamo evitare che l’AI diventi una piattaforma totalitaria del linguaggio e la base di un nuovo capitalismo estrattivo, dobbiamo smettere di chiedere risposte, e ricominciare a costruire domande. Pubbliche, lente, locali, collettive e affidate ai riti condivisi dell’interpretazione. Non si torna certo indietro ma c’è il bisogno di attraversare la bolla senza farsi colonizzare dal vuoto che lascerà.

Immagine: Paul Delvaux – La città dormiente (1944). Un paesaggio materialmente costruito ma psichicamente svuotato, come l’infrastruttura dell’AI: piena di energia, memoria e rame, ma priva di una direzione condivisa.