La cattedrale invisibile della coscienza

Viviamo in un tempo in cui le macchine rispondono sempre più in fretta, ma gli umani pongono sempre meno domande. L’efficienza ha divorato l’attesa, l’interazione ha sostituito l’esperienza. In questa rincorsa al “funzionare”, la coscienza sembra diventata un lusso superfluo, oppure un imbarazzo da archiviare.

Alcuni modelli sviluppati in ambito neuroscientifico hanno avuto il merito di restituire dignità allo studio della coscienza, sottraendola all’impalpabilità metafisica e portandola su un terreno osservabile. Ma ogni volta che la coscienza viene trattata come un oggetto tra gli altri, c’è il rischio di perdere ciò che la rende davvero tale: la sua natura interrogativa, la sua insistenza sul senso, il suo essere esperienza vissuta. La coscienza non può essere strappata alla sua dimensione filosofica e spirituale. Anche quando viene misurata, continua a domandare cosa significa vivere.

Negli ultimi anni ha preso piede, tra le altre, un’idea potente, resa popolare da Giulio Tononi con la sua teoria dell’informazione integrata, tra le più influenti ma anche dibattute. Giulio Tononi propone che la coscienza possa essere misurata da due proprietà fondamentali di un sistema: l’Integrazione e la Differenziazione dell’informazione, quantificate dal valore Phi (Φ). Se ho capito bene, (ma attendo, con speranza di capire meglio, un commento di chi ne sa) è come immaginare una fortezza dove ogni informazione è collegata alle altre: così la coscienza. Dall’altra parte, l’intelligenza artificiale appare come un grande bazar di moduli separati: fa moltissimo, ma non sappiamo che cosa significhi in termini di esperienza soggettiva.

La definizione operativa è disarmante. Tononi lo esprime con un’equazione semplice: la coscienza è l’essere, l’intelligenza è il fare. Confondere le due dimensioni significa non solo ridurre l’umano a funzione, ma amputare il senso stesso dell’esistenza. Un dato solo in apparenza triviale. Perché se oggi miliardi di dollari vengono investiti nell’addestrare modelli linguistici a imitare l’intelligenza, quasi nessuno si chiede che cosa sia la coscienza. Eppure, la coscienza non è un accessorio della mente: è la mente.

Il rischio non è che le macchine si sveglino, il rischio è che noi ci addormentiamo. Se deleghiamo tutto all’intelligenza, restiamo senza esperienza, e dunque senza realtà. Serve un capovolgimento: non domandarci più se una macchina è cosciente, ma chiederci cosa rende l’esperienza cosciente unica e irriducibile.

Guido Vetere, nel suo libro Intelligenze aliene, che è da studiare, descrive le AI come oggetti-soggetti linguistici che parlano come noi, ma senza partecipare al significato profondo di ciò che dicono. Il linguaggio delle macchine è estraneo: è una successione di segni calcolati, non l’emanazione di un’intenzione. Ecco allora che la coscienza non è solo un centro computazionale: è una soglia semantica, uno spazio in cui le parole si fanno mondo, e il mondo si fa significato.

E la risposta è in quella cattedrale invisibile che portiamo dentro: una struttura integrata e differenziata, un universo causale infinitamente più vasto di qualunque galassia, stimato, sempre secondo la teoria di Tononi, in 10 elevato a 10 elevato a 300 stati possibili. Una cifra talmente immensa da sfidare ogni immaginazione: è come scrivere uno 1 seguito da più zeri di quanti atomi ci siano nell’universo osservabile, non milioni, non miliardi, ma più che il numero totale di particelle subatomiche in ogni galassia esistente. Un numero incommensurabile che non va idolatrato, ma riconosciuto come valore. Perché non è il cervello che esiste. È l’esperienza che accade, che si dà, che costruisce mondo.

Ma cosa ce ne facciamo di questa cattedrale, se nessuno la visita più? Se l’educazione, la politica, persino la religione, hanno smesso di curare la coscienza come spazio comune? Forse ci può aiutare una nuova ecclesiologia senza chiese, una nuova epistemologia del sentire, in Italia abbiamo un grande esperto su questo, Piero Dominici. Serve il coraggio di dire che non tutto ciò che funziona è vero, e che non tutto ciò che è vero si può misurare.

Da qui discende anche una svolta educativa e istituzionale: smettere di sopravvalutare l’intelligenza. L’intelligenza si può delegare, la coscienza no. Perché solo nella coscienza ci è dato diventare pienamente umani. E sul piano politico, immaginare luoghi e tempi senza AI. 

In questo contesto, torna in primo piano il valore dei riti. Non come superstizione o nostalgia, ma come tecnologia del legame. Il rito non serve a ottenere risposte, ma a creare lo spazio dove una domanda può restare aperta. Nei riti, la coscienza si fa collettiva, si sincronizza con i corpi, con il tempo, con il limite. Una nuova ritualità della coscienza, capace di restituire profondità all’agire, di costruire gesti condivisi che oppongano resistenza alla frammentazione digitale e alla disintermediazione algoritmica.

Oggi è anche il tempo di chiederci quali altri saperi non umani, quali altre forme di coscienza, animali, ecologiche, vegetali, rituali, cosmiche, siano esistenti e disponibili a un confronto. Una specie di alleanza conoscitiva tra intelligenze e coscienze incarnate, visibili e invisibili, locali e sistemiche. Non per imitarle, ma per apprendere con umiltà altri modi di esistere, di abitare, di intendere la relazione tra mente, mondo e significato. Vivere con l’AI, senza diventare l’appendice biologica dei suoi automatismi. Esercitare la coscienza è un atto politico.