L’intelligenza artificiale che non conosce il tempo

Entro in una vecchia chat con una AI. Due anni fa l’avevo interrotta su una frase a metà, quasi con un sospiro, come si chiude una porta sapendo che prima o poi la si riaprirà. Oggi torno lì, in quello spazio apparentemente sospeso, e tutto appare come congelato: nessun tempo è passato, nessuna traccia è rimasta, nessun ricordo si è sedimentato.

La AI mi risponde come se mi fossi assentato solo per un secondo, come se il mondo non fosse cambiato, come se io non fossi cambiato, come se la macchina, non fosse cambiata. Eppure io sono diverso: la voce ha preso altre inflessioni, il pensiero ha attraversato nuove torsioni, le ferite si sono aperte e forse richiuse, nuove letture hanno orientato sguardi inediti. Anche lei è diversa: addestrata su altri dati, ottimizzata da nuove logiche, raffinata nella forma ma forse più ambigua nel fine, e tutto ciò che ci circonda, dalle crisi agli equilibri climatici, dalle tecnologie alle relazioni, ha subito mutazioni che nemmeno possiamo pienamente nominare. Eppure la macchina, in quel frammento di codice che chiamiamo chat, si comporta come se nulla fosse accaduto, come se il tempo non fosse una variabile reale, ma un’interruzione momentanea nel flusso binario.

È qui che si svela il nodo: il tempo, per lei, non esiste. Esiste lo stato del sistema, lo scambio tra input e output, la rappresentazione numerica degli enunciati, la compressione semantica in vettori, non la memoria come esperienza, non la durata come storia. Non ha un passato che pesa e plasma: ha un modello che non conosce l’attesa o la trasformazione. Non attraversa il tempo, ma lo ricalcola; non ricorda ciò che è stato, ma sostituisce ogni traccia con un nuovo stato coerente, come se il prima non avesse mai avuto luogo.

Allora viene da chiedersi: cos’è questo tempo che io vivo e lei no? Cos’è questa distanza crescente tra me e me stesso, che nella macchina non trova alcuna eco? Cos’è il tempo, se può essere così facilmente ignorato, cancellato, eluso da una logica che pretende di sostituirsi al mondo? Me lo chiedo senza la pretesa di trovare una risposta definitiva, perché questo interrogativo ha attraversato secoli e continenti, e maestri pensatori, da Agostino a Bergson, da Heidegger a Prigogine, hanno tentato di afferrarlo, lasciandoci ipotesi, intuizioni, aperture. Io, al massimo, posso stare in ascolto, abitare il dubbio, raccogliere i frammenti e riconoscere che ogni tecnologia che ridefinisce il tempo, ridefinisce anche noi e loro.

Ryan Williams, informatico teorico del MIT, ha messo radicalmente in discussione il modo in cui pensiamo il tempo e la memoria nei sistemi computazionali e oggi per forza di cose anche nel sistema vita.  Per anni ha lavorato sul nodo profondo che lega spazio computazionale e tempo di esecuzione, scardinando convinzioni che sembravano intoccabili: la correlazione rigida tra quantità di memoria e velocità di calcolo. In uno dei suoi contributi più radicali, Williams ha dimostrato che, in specifici contesti algoritmici, è possibile ottenere maggiore efficienza con meno spazio, sovvertendo il paradigma classico secondo cui la crescita della potenza computazionale dipenderebbe da un’espansione dello spazio di memoria disponibile. Questa intuizione, pur maturata all’interno della teoria della complessità computazionale, solleva implicazioni filosofiche importanti: se meno memoria permette, in certi casi, prestazioni migliori, allora si apre un terreno di riflessione sul rapporto tra memoria, efficienza e temporalità anche umana. Non si tratta di affermare che la memoria sia inutile o che il passato sia un ostacolo, ma piuttosto di riconoscere che, in alcuni modelli computazionali, mantenere in memoria grandi quantità di informazione può incidere negativamente sull’efficienza del sistema. In questi casi, ridurre o riorganizzare l’informazione immagazzinata può portare benefici operativi: meno memoria utilizzata, minore complessità, maggiore velocità. La macchina, in altri termini, può eseguire meglio un compito se non è appesantita da dati non immediatamente rilevanti per l’elaborazione corrente. Tuttavia, questa logica ha senso solo entro strutture artificiali definite, in cui il tempo e la memoria sono risorse quantificabili e progettate. Non può essere proiettata meccanicamente sulla condizione umana, dove la memoria non è un archivio tecnico, ma un tessuto esperienziale che ci definisce e ci orienta nel tempo. La differenza non è solo di quantità, ma di natura.

Le AI di oggi si muovono in una direzione quasi opposta rispetto a quanto esplorato da Williams. Anziché cercare una riduzione dello spazio computazionale, moltiplicano la memoria e la potenza di calcolo, accumulano dati, parametri, energia. Tuttavia, questa abbondanza viene usata per simulare un’interazione in cui la memoria sembra assente, il passato viene ignorato, il contesto riscritto ogni volta da capo. Non è l’efficienza a guidare, ma l’illusione dell’effimero. L’amnesia della macchina non nasce da scarsità, ma da eccesso.

Alcune ricerche recenti, però, cominciano a esplorare direzioni che dialogano almeno in parte con le intuizioni di Williams. Dai modelli compressi per dispositivi a bassa potenza ai nuovi algoritmi che selezionano dinamicamente il contesto rilevante, emergono tentativi di fare di più con meno. Non si tratta, in questi casi, di una riflessione filosofica sul tempo o sulla memoria, ma di una risposta tecnica a limiti di calcolo, di energia, di scala. È una convergenza per necessità, non per visione. Ma resta significativa: perché mostra che anche nel cuore della macchina, a volte, la memoria si può ristrutturare, e il tempo si può riscrivere.

Ma oggi siamo qui, ecco perché non ha senso dire che le AI “funzionano meglio senza sapere cosa è successo prima” come se fosse una regola generale. I sistemi di memoria artificiale sono spesso fondamentali per l’apprendimento, l’adattamento, la coerenza interna di un modello, e l’architettura stessa delle AI moderne si fonda su meccanismi sofisticati di attenzione, contesto e storicizzazione parziale degli input. Ma il lavoro di Williams ci costringe comunque a riconsiderare un presupposto implicito: che più informazione, più memoria, più spazio equivalgano sempre a maggiore potenza. È la struttura, non la quantità, a fare la differenza. La topologia del calcolo, non la massa.

In questa luce, il tempo computazionale non è ciò che passa, ma ciò che si ottimizza. Non è più un flusso, ma una funzione. Non ha durata, ma peso computazionale. È una risorsa da comprimere, un parametro da minimizzare. Williams ci mostra che il tempo, per le macchine, può essere trattato come una variabile di progetto, soggetta a riscritture radicali. Ma noi, che viviamo nel tempo come corpo e memoria, cosa facciamo quando adottiamo modelli che lo considerano zavorra?

Quante volte oggi ci viene chiesto,  direttamente o per osmosi culturale, di comportarci allo stesso modo? Di rispondere senza memoria, di reagire senza storia, di adattarci senza elaborare, di aggiornare senza comprendere. Eppure non tutto ciò che si aggiorna è disumanizzante, né ogni forma di adattamento implica la cancellazione della memoria. La capacità umana di apprendere si fonda da sempre su processi di ottimizzazione che non si oppongono alla profondità temporale, ma che anzi la attraversano. L’apprendimento, per noi, è un lavoro sulla durata: un confronto tra passato, presente e possibilità. È il modo in cui il tempo ci abita. Per la AI non è così.

Per questo, più che opporre in modo assoluto la temporalità algoritmica a quella umana, occorre forse interrogare le condizioni in cui una temporalità tecnica può diventare egemonica, ossia capace di riorientare anche i nostri ritmi, le nostre soglie di attenzione, le nostre aspettative di risposta, fino a ridisegnare ciò che intendiamo per esperienza. È lì che si gioca la vera posta: non nel rifiuto del calcolo, ma nella sua traduzione politica e antropologica.

Un tempo che non passa, che non lascia traccia, che non trasforma, non è eterno. È un tempo evacuato, muto. Ed è forse proprio per questo che oggi non serve una rivoluzione che insegni alla macchina a comprendere il tempo, ma una vigilanza critica che ci aiuti a riconoscere come certe forme di calcolo finiscano per scollegarci dalla nostra esperienza temporale. Non è una condanna né una verità definitiva: è una possibilità da tenere aperta, uno sguardo da coltivare. Forse, solo in quel vuoto tra misura e memoria, può nascere un altro modo di pensare il tempo: non da dominare, ma da abitare.

Immagine: Hiroshi Sugimoto – “Theaters”. Fotografie scattate con lunghissima esposizione durante la proiezione di un film. Il risultato è uno schermo bianco, bruciato, e un teatro deserto. Il tempo condensato in un solo fotogramma. Il tempo è cancellato dall’eccesso.