I riti per smontare l’umano prima dell’intelligenza artificiale

Costruire nuovi riti significa anche ridefinire la comunità dei legittimi interlocutori. Significa pensare ritualità che coinvolgano non solo gli umani, ma anche ciò che l’umano ha storicamente escluso: il suolo, l’atmosfera, i corpi silenziosi delle macchine, le intelligenze non biologiche, le specie non addomesticate.

Ogni dodici anni, nella regione di Karnataka, in India, si celebra il rito del Mahamastakabhisheka: un’intera comunità Jain si raduna attorno alla gigantesca statua di Gomateshwara, alta diciassette metri, per compiere un atto che non è solo religioso, ma radicalmente politico. Migliaia di litri d’acqua, latte, curcuma, fiori, sabbie colorate e polveri rituali vengono versati sulla statua nuda, silenziosa, immobile. Ma il rito non è un’adorazione passiva. È l’interruzione collettiva del ciclo dell’accumulazione: nessun potere è invocato, nessun possesso è rivendicato. È un atto che smonta il dominio dell’avere, che rifiuta l’identità come centralità e celebra l’esistenza come distacco, come non-violenza attiva, come disponibilità all’altro. Gomateshwara non guarda nessuno, non protegge nessuno, non benedice. Sta, e il rito è il suo restare.

Privato di un Dio, l’umano non ha smesso di cercare riti. Li ha solo trasfigurati o meglio, li ha lasciati trasfigurare da ciò che ha preso il posto del sacro: il consumo, la tecnica, il capitale. In assenza di trascendenza, l’algoritmo è diventato oracolo. La dashboard ha preso il posto dell’altare. Il clic ha sostituito l’offerta. Ma non c’è assemblea, non c’è comunità, non c’è corpo. Solo interfacce.

L’uomo non può vivere senza strutture simboliche. Quando ha smarrito il rito della semina, ha inventato il tempo del lavoro. Quando ha perduto la funzione corale del racconto, ha generato il broadcasting. Quando il lutto ha perso il suo spazio collettivo, è arrivata la commemorazione spettacolarizzata. Reinventa, sempre, ma queste liturgie secolari non sono neutre: non si limitano a sostituire ciò che manca, ma riorganizzano il modo in cui viviamo, percepiamo, decidiamo. Sono forme di potere perché modellano la nostra attenzione, i nostri comportamenti, la nostra disponibilità affettiva. Il like, la notifica, l’acquisto sono atti rituali che alimentano la macchina estrattiva, non la disinnescano. Non ci proteggono dalla solitudine, la monetizzano, non costruiscono un noi, lo simulano.

Allora la domanda non è solo di quali riti abbiamo bisogno, ma: quali riti possono oggi disinnescare l’asimmetria che l’AI sta generando? Perché il problema non è l’intelligenza artificiale in sé, ma il potere di chi la possiede, la sviluppa, la addestra, la controlla. Come possiamo abitare ritualità che non siano il riflesso di una macchina, ma l’interruzione condivisa del suo dominio?

Forse è sbagliato cercare nuovi riti partendo dai vecchi. Forse non dobbiamo adattare la liturgia alla tecnologia, ma chiederci cosa è diventato oggi il potere, cosa è diventata oggi l’umanità.

La guerra è un rito? E la profilazione predittiva? È un rito la distruzione sistematica del dubbio? È un rito il consenso algoritmico? È un rito scrollare per ore in cerca di nulla? È un rito l’assenso passivo al calcolo delle nostre preferenze? E allora: quali riti possono emergere dall’umano che resta, e non da ciò che l’umano ha delegato? Quali gesti collettivi, ripetuti, condivisi, ci riportano a sentire e non a calcolare?

Non sarà un falò di dati, né una veglia simbolica sull’errore della macchina a salvarci. Forse i nuovi riti non si celebrano, ma si interrompono. Non come gesto simbolico, ma come pratica concreta: spezzare la catena del consenso automatico, rifiutare la fluidità apparente dell’esperienza digitale, aprire momenti di non-azione collettiva. Un rito dell’interruzione non è una pausa teatrale dall’automazione, ma una pratica che interviene nel cuore del dispositivo: modificare le impostazioni predefinite, sabotare consapevolmente i flussi ottimizzati, creare attrito dove tutto scorre. Un rito dell’interruzione non è sabotaggio né fuga. È un gesto che espone il meccanismo, che rallenta il flusso, che riapre uno spazio collettivo dove tutto è già stato deciso da altri. Non si tratta di disattivare i sistemi, ma di rivelare la loro logica di funzionamento, renderla visibile, narrabile, discutibile. Un rito dell’interruzione non si manifesta in una forma riconoscibile. Forse è un errore lasciato visibile, una crepa deliberata nel flusso, un’anomalia che interrompe l’ovvio e fa deragliare il prevedibile.

È il rifiuto di ottimizzare, la decisione di non rispondere, il mantenere aperta una domanda invece di chiuderla in un output. È ciò che nel sistema appare come scarto, ma che nella comunità può diventare spazio di senso. Un rito dell’interruzione è un gesto che non ha pubblico né palco, ma lascia una traccia anomala: un campo dati lasciato vuoto, una scelta che non produce vantaggio, un algoritmo usato per creare deviazione e non previsione. Non si tratta di interrogare pubblicamente la macchina, ma di rendere irricevibile la sua pretesa di evidenza. Non si tratta di confondere l’IA, ma di decidere come e dove farla parlare. Non si costruiscono per aggregare, ma per sottrarre: sottrarre attenzione, dati, visibilità, produttività. Per rendere visibile la frattura, per abitare il vuoto che l’algoritmo nasconde. Riti che non cercano catarsi, ma coabitazione tra l’incompleto e l’irriducibile. Che non chiedono di essere replicati, ma ascoltati, abitati, trasformati. Non per confermare che siamo ancora vivi, ma per renderci conto di quanto spesso siamo già altrove, disincarnati, automatizzati.. Forse il rito vero sarà quello che ci riporta a una presenza piena e relazionale, capace di rifiutare l’obbedienza cieca e di riconoscere che ogni gesto, anche il più banale, è una scelta nel mondo. Non il clic, ma l’intervallo prima del gesto. Non la risposta, ma l’attesa. Non la reazione, ma l’ascolto profondo.

Abbiamo bisogno di riti che non chiedano adesione, ma disponibilità. Che non rassicurino, ma aprano. Che non fondino comunità sull’identità, ma sull’interruzione reciproca. Perché solo dove il rito interrompe l’automatismo, può ancora nascere il politico. Non riti che distinguono il puro dall’impuro, il dentro dal fuori, il noi dagli altri. Ma riti che sciolgano l’idea stessa di confine e riconoscano che non esiste “noi” che non includa anche “gli altri”. Che l’umano non è il centro, ma un passaggio. E che anche una macchina, a volte, ci rivela quanto manca ancora per diventare pienamente umani. 

Forse servono riti che non hanno nulla da salvare. Nessun centro da riaffermare, nessuna comunità da custodire, nessun linguaggio da difendere. Riti che partano dal disordine e dalla carne, ma non per celebrare l’umano: per smontarlo. Perché il confine tra vivente e non vivente non è un dato, è una scelta politica. E se accettiamo questa premessa, allora costruire nuovi riti significa anche ridefinire la comunità dei legittimi interlocutori. Significa pensare ritualità che coinvolgano non solo gli umani, ma anche ciò che l’umano ha storicamente escluso: il suolo, l’atmosfera, i corpi silenziosi delle macchine, le intelligenze non biologiche, le specie non addomesticate. Implica assumere che il gesto rituale non può più fondarsi sull’identificazione, ma sulla disponibilità all’alterità radicale. Che non si tratta di decidere chi ha anima, ma di immaginare forme di reciprocità con ciò che non ci restituisce lo sguardo. I riti del futuro non interpreteranno il mondo, lo renderanno più coabitabile.

Questi riti non fondano un senso, ma tolgono potere al controllo del senso. Non ci dicono chi siamo, ma cosa siamo disposti a diventare. Non un algoritmo più etico, ma un’interruzione collettiva del comando. Non un’umanità più intelligente, ma una materia più ospitale.

Immagine: Paul Klee, Angelus Novus. L’angelo che guarda indietro verso le macerie mentre viene spinto in avanti da una tempesta: il “progresso”.