Si comincia sempre da una ferita nella terra. Una valle agricola che diventa cava, un corso d’acqua che si trasforma in rischio, un territorio che smette di essere abitato per essere misurato in tonnellate di minerali. Anche l’intelligenza artificiale, che si presenta come immateriale e neutra, nasce da queste stesse ferite: ogni sua promessa algoritmica è fondata su una geologia violentata, su energie sottratte a comunità e paesaggi.
C’è un luogo del Mediterraneo, in Grecia, dove la costa e le colline sono state trasformate dall’estrazione di bauxite. Per secoli quel paesaggio è stato fatto di ulivi, vigne, villaggi e percorsi di pastori. Oggi, invece, le colline sono ridotte a crateri rossi, aperti a cielo, le strade coperte di polvere, il mare azzurro che incontra la ferita scarlatta della terra. È l’immagine precisa e brutale di cosa significhi tradurre un territorio in giacimento: togliere il diritto all’abitare, al nominare, al ricordare per convertire tutto in valore estraibile.
È sempre così che comincia la nostra modernità: con un terreno sacrificato, con un’ecologia cancellata per nutrire un’altra geografia, distante. Una geografia che non conosce i luoghi per quello che sono, ma li riduce a funzioni da integrare in mappe energetiche e catene di approvvigionamento. È la distanza, logistica, politica, cognitiva, che permette di trasformare un villaggio in Serbia, una valle trentina, una costa greca in punti intercambiabili di un’unica infrastruttura di estrazione.
Ed è ciò che sta accadendo oggi nella valle del Jadar, sulle Alpi Dinariche, dove una miniera di litio viene raccontata come salvezza energetica per l’Europa, capace di coprire quasi l’intero fabbisogno continentale. A Bruxelles è strategia, a Belgrado, Sarajevo, Podgorica, Mostar e Nikšić emancipazione, ma per i contadini significa acqua contaminata, campi sradicati, un territorio ridotto a scorte di atomi. In questo scarto tra la promessa e la ferita, tra l’energia promessa e la comunità cancellata, si fa urgente una nuova diplomazia: una diplomazia cibernetica.
Uno spazio politico capace di trattare non solo quantità di materie prime, ma anche il valore delle relazioni, dei dati, delle intelligenze locali che questi territori esprimono. Significa riconoscere che i paesaggi non sono meri depositi, ma sistemi di conoscenza distribuita: foreste, acque, comunità umane e non umane che custodiscono forme di intelligenza diverse, intrecciate e non sostituibili. Una diplomazia cibernetica, per essere reale, dovrebbe dunque saper ascoltare queste intelligenze multiple e lasciare che orientino le scelte politiche ed economiche, invece di ridurle a cifre in un bilancio o a coordinate su una mappa.
Questa logica estrattiva si fonda anche su strumenti che fingono neutralità, ma che sono parte integrante dell’infrastruttura di sfruttamento: la mappatura digitale e satellitare dei territori diventa infatti una forma di epistemologia militare. Uno sguardo che non serve ad abitare, ma a pianificare l’uso dello spazio da remoto. Non si osservano più gli alberi, i pozzi, i gesti agricoli o pastorali, ma le tracce che lasciano sui modelli digitali. Non si ascoltano più le parole dei viventi, ma i segnali che emettono: rumore, temperatura, variazione, consumo. È questa riduzione del mondo a superficie leggibile per l’estrazione, e solo per essa, che la diplomazia cibernetica dovrebbe disinnescare, restituendo spessore politico alle ecologie locali e alle loro grammatiche irriducibili.
Non è uno schema che riguarda solo la Serbia. Anche la Provincia di Trento, attraverso il MUSE, ha avviato ricerche sui terreni potenzialmente estrattivi inserendo le Alpi dentro la stessa cartografia energetica. È il segno che la transizione non è una liberazione dal fossile, ma la prosecuzione di un ordine coloniale con un colore diverso.
Tra i segnali più recenti c’è anche un progetto di un data center costruito all’interno di una ex miniera in Val di Non. Presentato come infrastruttura sostenibile, efficiente, a basso impatto, solleva interrogativi importanti: può un’infrastruttura tecnologica, anche se ecologica, evitare di replicare le stesse logiche di distacco e astrazione che caratterizzano l’estrazione? Quando i dati diventano la nuova materia da raffreddare, archiviare, capitalizzare, il rischio è che la sostenibilità si riduca a un’estetica dell’efficienza, senza interrogarsi su quali dati, per chi, secondo quali modelli cognitivi e territoriali.
La speranza è che dichiarazioni pubbliche che evocano un campus integrato, aperto alla ricerca e al territorio, possano segnare l’inizio di una diversa consapevolezza. Una visione che, per non restare confinata alla comunicazione istituzionale, dovrebbe tradursi in pratiche reali di coinvolgimento, interrogazione pubblica e apertura politica. E poi la creazione di osservatori civici sull’impatto territoriale delle infrastrutture, strumenti di governance distribuita per la gestione dei dati, bilanci sociali e ambientali partecipati, e patti territoriali che leghino lo sviluppo tecnologico a forme concrete di corresponsabilità comunitaria. Infrastrutture come questa rischiano di riprodurre dinamiche di centralizzazione, ma possono anche aprire spazi inediti per una nuova alleanza tra tecnica e territorio. A condizione che si attivino dispositivi concreti di ascolto, confronto e restituzione alle comunità. Solo allora potranno smettere di essere strumenti di distanza per diventare interfacce tra geografie, intelligenze e visioni plurali della transizione.
E poi esistono altre ipotesi importanti. Si può “restare con il problema” invece di risolverlo come propone Donna Haraway, o tessere alleanze multispecie piuttosto che imporre soluzioni estrattive. So può proporre di riconoscere la tecnologia non come destino, ma come campo di possibilità politica e culturale, dove forme diverse di sapere, contadino, locale, ecologico, artistico, possono intervenire nel disegno degli strumenti. Non è solo una questione di cosa facciamo con le macchine, ma di quali mondi vogliamo abitare insieme a esse.
La vera soglia non è tecnica, ma politica: decidere se i territori resteranno funzioni da estrarre o se potranno tornare ad abitare sé stessi, come luoghi vivi, intelligenti, in relazione con altre intelligenze. Restare con il problema non significa rassegnarsi, ma costruire dispositivi di ascolto che abbiano conseguenze: piattaforme pubbliche di consultazione, osservatori territoriali, reti intercomunali che trattano i dati non come materia prima ma come relazioni da custodire. Significa immaginare politiche di decarbonizzazione che non si limitino alla sostituzione tecnologica, ma che mettano in discussione il ritmo, il fabbisogno, la geografia stessa della transizione. Significa non idealizzare i territori, ma riconoscere che proprio perché sono luoghi di conflitto, possono diventare luoghi di decisione. Se ogni infrastruttura disegna un ordine, allora la vera posta in gioco è questa: chi decide la forma di quell’ordine, con quali strumenti, per conto di chi.
Immagine: Anselm Kiefer – “Nigredo” (1984) Kiefer lavora con materiali reali (piombo, cenere, fango) e costruisce paesaggi che sono letteralmente terre ferite. Nigredo è un riferimento all’alchimia, ma anche alla fase oscura, corrosiva del processo.