C’erano giorni in cui il mondo si fermava. Migliaia di persone salivano per sentieri scoscesi, attraversavano la fonte Castalia e si raccoglievano nel cuore di Delfi. Non si cercava una verità assoluta, ma un contesto in cui pensare. Si saliva per chiedere a Dio come orientarsi. Non da soli, si attendeva il giorno giusto, si rispettava un ordine, si partecipava a un rito che era anche un atto politico. La domanda non era personale, ma collettiva. La risposta non era netta, ma ambigua. E proprio per questo apriva uno spazio, spingeva la città a discutere. Rendeva pensabile l’alternativa.
L’origine dell’oracolo di Delfi non risiede in una data di fondazione, ma in un intreccio di mito, geografia e potere. Zeus lasciò volare due aquile dai due estremi del mondo e nel punto del loro incontro lasciò cadere una pietra sacra, l’omphalos: l’ombelico del mondo. Delfi diventa così il centro simbolico del mondo greco, nodo di alleanze, competizioni, fondazioni coloniali e consultazioni sovrane. La sua funzione non era solo religiosa, ma eminentemente politica: una macchina di consenso, legittimazione e mediazione tra le città-stato. Ogni polis lasciava tracce architettoniche del proprio passaggio, con piccoli templi e offerte lungo la via sacra, trasformando il paesaggio in una coreografia diplomatica. Il potere di Delfi non era tanto nella Pizia, la sacerdotessa che pronunciava i responsi del dio Apollo, quanto nell’intero sistema culturale che ne moltiplicava gli effetti.
Gli antichi avevano compreso l’importanza della spiritualità non come rifugio, ma come architettura sociale, e dei riti non come accessori, ma come infrastrutture collettive di senso. A Delfi, il sacro non era separato dal politico, né il mito separabile dal governo: era proprio attraverso la ritualità condivisa che si costruivano le condizioni della decisione. Il rito non serviva a placare le divinità, ma a costruire una soglia comune tra visibile e invisibile, tra umano e divino, tra desiderio e limite. In un certo senso, Delfi era una forma antica di governance cognitiva, in cui la spiritualità agiva come tecnologia culturale. Certo l’ambiguità della Pizia, per quanto generativa, era spesso lo scudo simbolico di decisioni già prese altrove. La consultazione a Delfi, per quanto potente come rito collettivo, era un privilegio. Non era un luogo di pura democrazia deliberativa, ma uno strumento inserito in reti di potere, prestigio, accesso. Eppure, dentro quei limiti, Delfi ci offre ancora oggi una lezione dimenticata. La lezione di un’ecologia della domanda; una lezione su come si costruisce il pensiero quando il tempo non è ridotto a latenza e la conoscenza non è semplificata in un output.
Non è un equivoco, e forse nemmeno un paragone esplicito. È piuttosto una proiezione culturale silenziosa, che dice più su di noi che su Delfi. Oggi trattiamo l’intelligenza artificiale come se fosse un oracolo, e così facendo dimentichiamo che gli antichi a Delfi non cercavano risposte. O almeno, non nel senso in cui oggi intendiamo una risposta: un output preciso, ottimale, individualizzato. L’oracolo non chiudeva, non selezionava e non semplificava. Apriva tempo, spazio, interpretazione e generava un contesto collettivo in cui la domanda poteva maturare. Non si tratta certo di dire che trattiamo l’intelligenza artificiale semplicemente come un oracolo, la sua funzione nella società contemporanea è ben più estesa e frammentata. Ma c’è un uso, sempre più diffuso e solitario, in cui questa tecnologia finisce per assomigliare a una versione disincarnata dell’antico oracolo: una fonte a cui chiedere, una voce che risponde, senza contesto, senza attesa, senza mediazione. È in questa forma che l’AI si avvicina a Delfi, ma solo nella sua caricatura: senza corpo, senza rito, senza ambiguità e soprattutto senza comunità. La Pizia non era un modello linguistico; era un’interfaccia umana e rituale. Il suo potere non stava nel contenuto, ma nel processo: il diritto e il dovere di pensare insieme. Quello che oggi chiamiamo intelligenza artificiale è l’esatto opposto: un dispositivo che chiude, che accelera, che isola. Non costruisce senso, lo distribuisce in forma di risultato; non apre il conflitto, lo silenzia. Cosi i potenti hanno deciso che deve essere l’intelligenza artificiale.
Il paradosso, allora, non è che l’oracolo fosse una forma primitiva di AI. È che l’AI moderna sta diventando, culturalmente, più oracolare dell’oracolo stesso, ma in una versione impoverita, disincarnata, spoliticizzata. Abbiamo sostituito il rito con l’interfaccia, il contesto con la latenza, la polis con il prompt. Perché chi controlla il contesto dell’interrogazione, controlla anche il campo del pensabile. E questo è il nodo politico cruciale: così come a Delfi erano pochi, sacerdoti, aristocrazie, poteri cittadini, a definire il quadro in cui la domanda poteva essere posta, oggi sono pochi attori globali a determinare come, quando e su quali assi interpretativi possiamo usare l’AI. Non stiamo interrogando un’entità neutra: stiamo partecipando, consapevoli o no, a una coreografia disegnata da chi possiede l’infrastruttura, i dati e gli standard.
Ma è proprio qui che si gioca la partita più difficile: come può un dispositivo di potere, costruito per le élite, suggerire oggi un uso democratico dell’intelligenza artificiale? La risposta non sta nell’imitazione di Delfi, ma nella sua decostruzione. La lezione di Delfi non è un modello da replicare, ma un passaggio da superare: mostra che ogni infrastruttura cognitiva, anche quella più sacra, è sempre costruita da qualcuno per qualcuno. E dunque può essere rifondata. Se riconosciamo che anche l’AI, come Delfi, non è neutra ma plasmata da interessi, allora possiamo rovesciare il paradigma. Possiamo immaginare un’intelligenza collettiva non come oracolo da interrogare, ma come spazio da costruire insieme, con nuove liturgie, nuovi accessi, nuovi gesti. Non si tratta di tornare a Delfi, ma di estrarne la consapevolezza che ogni risposta dipende dalla forma che diamo alla domanda e dal potere di chi la formula.
Così anche parlare di Delfi come di una cibernetica premoderna non è anacronismo, se si intende la cibernetica come grammatica delle relazioni e non come apparato tecnologico. È un modo per illuminare il presente, non per traslare il passato. In questo senso, si può vedere una grande consonanza con il lavoro di Gregory Bateson, in particolare con il suo concetto di “ecologia della mente”. Bateson, antropologo, biologo, psicologo, cibernetico, tra i primi a esplorare le connessioni tra sistemi biologici, sociali, culturali e cognitivi, sosteneva che la mente non è confinata al cervello, ma è un sistema esteso che include il corpo, le interazioni sociali e l’ambiente. Visto cosi l’oracolo di Delfi non era solo un luogo, ma un ecosistema cognitivo completo. Non si trattava semplicemente di un centro spirituale, ma di un ambiente codificato di relazioni, segnali, simboli e retroazioni che coinvolgevano individui, istituzioni, paesaggi e rituali in un circuito di senso continuo. In altre parole, Delfi funzionava come una macchina cognitiva collettiva: una rete attraverso cui la conoscenza non veniva prodotta da un singolo attore, ma emersa dalla complessità delle interazioni tra elementi umani e non umani. Il pensiero, in questo schema, era un evento distribuito, situato, sempre relazionale. L’atto fisico del pellegrinaggio e l’esperienza sensoriale del tempio non erano accessori, ma parti integranti del processo di pensiero e la mente si incarnava nel rito. La discussione collettiva del responso non era un semplice scambio di opinioni, ma un meccanismo di auto-correzione del sistema. La saggezza non risiedeva in un’unica mente, ma nella circolazione delle idee tra individui. Un sistema che accetta l’ambiguità è più resiliente; invece di collassare di fronte a un’incertezza, è costretto a evolvere, a cercare nuove interpretazioni e a rafforzare i legami sociali. L’ambiguità era, in questo senso, un’innovazione evolutiva.
E se anche l’AI può generare ambiguità, aprire possibilità interpretative e stimolare dibattiti, il suo design attuale tende a fare l’opposto. Ciò che viene presentato come precisione è in realtà una decisione progettuale su ciò che vale come risposta. La nostra relazione con l’AI, quindi, non è data una volta per tutte: è una scelta politica e tecnica, una costruzione culturale. E come ogni costruzione, può essere modificata. Ci serve un altro modo di intendere l’intelligenza. Una che non riduca il sapere alla previsione, né la vita a una sequenza di comandi. L’errore non è nella macchina, ma nell’impianto epistemico che la guida: una cibernetica impoverita, fondata sul controllo, incapace di ascoltare ciò che non produce. Per questo, ogni comunità che voglia usare l’AI senza esserne usata dovrà ripartire da una spiritualità come pratica del limite, della soglia, dell’invisibile. È un’esigenza politica. La spiritualità, se non diventa rifugio, può offrire direzione, ma senza un’esperienza condivisa dell’eccedenza, senza mistica, e senza forme incarnate che la rendano agibile, senza riti, resta intenzione astratta.
Oggi interroghiamo modelli per ottenere risposte. Ma una comunità che non sospende, che non ascolta, che non crea tempo comune attorno alla domanda, finisce per pensare come la macchina che usa; e in quel momento la delega diventa oblio. Solo chi custodisce la soglia tra dato e significato può ancora generare una cibernetica del vivente. Non per ottimizzare, ma per risuonare, non per accelerare, ma per comprendere.
Il rito non va cercato nel folklore o nell’archeologia, ma nei margini della nostra quotidianità tecnologica. Non è solo una sequenza di azioni condivise. È una soglia carica di senso, un gesto che mette in relazione l’umano con ciò che lo supera: il tempo, la collettività, la morte, la Terra, il sacro. Il rito non si limita a istruire, ma trasforma; richiede lentezza, ripetizione, simbolo e richiede, soprattutto, che ci si creda, non nel contenuto, ma nella forma stessa del creare uno spazio altro. Una pausa, un atto meditativo e collettivo.
Se oggi vogliamo parlare di riti attorno all’AI, non basta inserire lenti di riflessione o momenti deliberativi: dobbiamo costruire liturgie civiche, pratiche simboliche che restituiscano peso al gesto del chiedere, del decidere, del sapere. Una scuola che comincia con una domanda collettiva rivolta all’AI non è ancora un rito. Ma può diventarlo se c’è un ritmo, un senso del limite, un’attenzione condivisa. Se quel gesto non serve solo a produrre una risposta, ma a trasformare la domanda stessa. In questo senso, parlare di riti significa riportare la spiritualità, non come religione, ma come pratica del profondo, al centro del progetto tecnologico. Non per moralizzare la macchina, ma per umanizzare chi la interroga.
Immagine: “La Pizia” di John Collier (1891). Raffigura la sacerdotessa di Delfi in stato di trance, avvolta dal fumo, con uno sguardo sospeso tra il dentro e il fuori, tra umano e divino. Mostra l’ambiguità del corpo come interfaccia, il limite come spazio sacro.