Il 23 maggio 2025, Donald Trump ha pubblicato su Truth Social un messaggio: si aspettava che gli iPhone venduti negli Stati Uniti fossero fabbricati nel paese, non in India o altrove. E ha aggiunto che, in caso contrario, Apple avrebbe dovuto affrontare un dazio del 25% su ogni dispositivo importato. A meno di tre mesi di distanza, il 6 agosto 2025, Trump e il CEO di Apple Tim Cook si presentano insieme alla Casa Bianca per annunciare un piano da 100 miliardi di dollari in nuovi investimenti manifatturieri negli USA, portando il totale a 600 miliardi nei prossimi quattro anni, secondo quanto riportato da Reuters.
Ma dietro la retorica della rinascita industriale americana, si nasconde una manovra ben più radicale: Trump non vuole solo rilocalizzare la produzione, vuole ricondurre sotto sovranità politica un potere che da anni sfugge alle logiche dello Stato-nazione. Il bersaglio non è Apple, ma ciò che rappresenta: un’entità metaterritoriale, tecnicamente americana ma logisticamente transnazionale, fiscalmente apolide, simbolicamente globale. Ecco perché questo annuncio, lungi dall’essere una mera notizia economica, va letto come un atto geopolitico: la ridefinizione forzata dei rapporti tra capitale, tecnologia e sovranità.
Nessuno possiede davvero il proprio telefono. Ma oggi, sembra che nemmeno gli Stati Uniti possano più possedere il proprio prodotto simbolo. Quando Trump messaggia contro Apple e minaccia dazi del 25%, non sta parlando solo di economia. Sta indicando un conflitto di sovranità, e una nuova forma di guerra. Più sottile, più profonda, più pericolosa.
È il paradosso della tecnologia moderna: progettata in California, assemblata in India, fatta dipendere da chip taiwanesi, alimentata da minerali congolesi e venduta a cittadini che non saprebbero nemmeno ripararla. L’iPhone non è un oggetto. È l’emblema più raffinato della globalizzazione irreversibile. Trump lo sa e per questo lo attacca.
Nel 2025 l’intera filiera degli smartphone è diventata un’infrastruttura di potere. Non si tratta più soltanto di sapere dove viene assemblato il prodotto, ma di chi controlla i progetti e i brevetti, le fonderie di silicio, le terre rare, le fabbriche nei distretti asiatici, le regole del commercio globale, le piattaforme di distribuzione, le licenze software. L’equilibrio si è tenuto per anni su una delicata interdipendenza: i chip da Taiwan, l’assemblaggio in Asia, la domanda negli Stati Uniti, i brevetti in Occidente. Ma da almeno un decennio questo equilibrio si incrina. E oggi, sull’onda di conflitti latenti e crisi manifeste, la tecnologia smette di essere neutra.
Trump non mira davvero ad Apple. Mira a rinegoziare le sfere di influenza industriale. E per farlo, attacca ciò che simboleggia l’universalismo globale. L’iPhone, infatti, non esisterebbe senza TSMC. Taiwan Semiconductor Manufacturing Company è la più grande fonderia indipendente di semiconduttori al mondo. Produce oltre il 50% dei chip globali su commissione e più del 90% di quelli avanzati sotto i 7 nanometri, fondamentali per smartphone, AI, difesa e supercomputer. I suoi clienti principali: Apple, Nvidia, AMD, Qualcomm e molti altri.Con sede a Taiwan, è un nodo critico dell’economia globale: se crollasse o fosse invasa la produzione taiwanese, l’intera filiera tecnologica mondiale si fermerebbe. Per questo, è diventata anche un attore geopolitico strategico, al centro dello scontro tra Stati Uniti e Cina. TSMC dunque è il vero cuore della filiera, e Trump lo sa. Sa anche che Taiwan è considerata dalla Cina una “provincia ribelle” e che una guerra nello Stretto paralizzerebbe non solo Apple, ma l’intera economia digitale mondiale. Ecco perché attacca Apple: per far pressione indiretta su TSMC, su Pechino e su Taipei. Non è un gesto commerciale, ma una manovra di posizionamento. Un messaggio a Xi Jinping: se tocchi Taiwan, colpirò le aziende che fanno girare il tuo export. È una minaccia mascherata da dichiarazione doganale. E fa parte di una strategia più ampia, in cui la guerra dei chip non è più un’ipotesi futura ma un campo di battaglia già attivo. Gli smartphone, in questa prospettiva, non sono più strumenti di comunicazione, ma dispositivi schierati.
Apple, dal canto suo, ha provato a smarcarsi dalla Cina spostando quote crescenti della produzione in India e Vietnam. L’India non vuole essere solo la nuova fabbrica del mondo: vuole partecipare da potenza autonoma. E per Trump, questo è indigesto e punta a aumentare i dazi anche per gli indiani. Il messaggio è chiaro: non basta essere “non cinesi” per essere partner strategici. Chi non si allinea, anche se produce per Apple, viene punito. La logica non è più quella dell’efficienza produttiva, ma quella della fedeltà politica. La filiera non è più neutra, ma condizionata dall’obbedienza geopolitica. E il telefono, da semplice prodotto, si trasforma in cartina di tornasole: non dice più solo dove siamo, ma da che parte stiamo.
E certo anche TSMC, colosso apparentemente intoccabile della produzione globale, si regge su equilibri tutt’altro che stabili. Senza terre rare congolesi, senza rame cileno, senza silicio lavorato in Cina, senza energia generata da centrali fossili e senza acqua dolce estratta da bacini agricoli locali, la più avanzata delle fonderie si ferma. Bastano pochi anni a ritroso per ricordare cosa accadde a Taiwan quando l’industria dei chip, prioritaria per il PIL nazionale, durante un lungo periodo di siccità cominciò a consumare più acqua delle campagne circostanti. Per alimentare i processi produttivi delle fabbriche di semiconduttori, si tolse acqua ai contadini e alle loro compagne, alle risaie, agli ecosistemi. Non fu una metafora, fu un ordine politico: le fabbriche prima, i campi dopo. E il futuro, nel migliore dei casi, lasciato al margine. Non esiste chip senza estrazione, senza diseguaglianza, senza consumo ecologico e sacrificio sociale. La tecnologia non è pulita per definizione. Va costruita con criteri, con limiti, con responsabilità. Ma questo è proprio ciò che la politica spettacolarizzata alla Trump non sa fare. Non costruisce equilibrio, ma impone priorità. Non distribuisce, ma accentra. Non pone domande, ma pretende risposte immediate. E mentre il mondo si scalda, si disgrega, si avvelena, la promessa di “fare tutto in casa”, di riportare l’iPhone in Ohio, come se bastasse un impianto e un dazio, appare per quello che è: un’illusione che alimenta il disastro.
Trump non vuole davvero che Apple costruisca gli iPhone in Ohio. È una provocazione deliberata, sono anni che segue questo metodo. Ma la sua richiesta, economicamente e industrialmente irrealizzabile, ha effetti concreti. Perché non serve che venga davvero attuata: basta che venga pronunciata per spostare l’equilibrio. Costringe le big tech a esporsi politicamente, non più solo come attori economici, ma come corpi sovrani ibridi, entità che fino a ieri potevano rivendicare una neutralità post-statuale, e che oggi sono trascinate a forza dentro logiche di schieramento. Finché l’industria digitale poteva nascondersi dietro la maschera della tecnica, “noi ci occupiamo di tecnologia, non di politica”, poteva godere di una protezione implicita, di un margine di manovra globale. Ma oggi quella maschera è saltata. E non è stata una rivoluzione a strapparla. È bastata la minaccia di un dazio, l’ordine perentorio di un leader, un tweet in maiuscolo.
Quando un Presidente afferma che l’iPhone deve essere costruito negli Stati Uniti, impone ad Apple, e a tutte le altre, una scelta forzata: tacere significa accettare il ricatto, rispondere significa esporsi, diventare nemiche pubbliche, venire accusate di slealtà, di complicità con il nemico. Il capitalismo delle piattaforme, nato come fenomeno metaterritoriale, con server distribuiti e sedi legali mobili, si ritrova incastrato in una morsa geopolitica dove ogni fabbrica diventa una frontiera, ogni fornitore un alleato o un traditore, ogni scelta logistica una dichiarazione di appartenenza.
Eppure, non si tratta di un ritorno alla politica nel senso alto del termine. Non c’è ricerca di giustizia, di redistribuzione, di equilibrio tra potere economico e dignità sociale. C’è piuttosto una militarizzazione del territorio digitale, una mossa imperiale che trasforma il desiderio di sovranità in esercizio di dominio. Trump non chiede ad Apple di sottoporsi a una nuova cittadinanza tecnologica; chiede obbedienza. Non costruisce una democrazia della filiera, ma una logica di lealtà forzata. In questo, la sua azione non rappresenta un’alternativa al potere opaco delle big tech, ma un tentativo di re-incapsularlo dentro uno Stato che non si rigenera, ma si impone. È una guerra tra grandi superpotenze. Musk forse è stato il primo ad accorgersene, anche se troppo tardi.
La dichiarazione di Trump, in questo senso, non è un attacco a un’azienda, ma al concetto stesso di globalizzazione come sistema fluido e funzionale. Le imprese, improvvisamente, non possono più giustificare le proprie scelte in nome dell’efficienza o dell’innovazione. Devono giustificarle politicamente, come se fossero ambasciate, come se ogni fabbrica fosse un’avamposto strategico in uno scacchiere post-guerresco. Devono scegliere un lato. In un mondo in cui non scegliere è già una colpa.
L’obiettivo finale non è riportare l’industria negli Stati Uniti. È recuperare la sovranità sulla produzione, sulla logistica, sull’estrazione, sulla codifica, sulla memoria. Trump sa che gli Stati Uniti hanno perso il controllo fisico delle filiere. E invece di ricostruirle, cerca di costringerle a tornare sotto obbedienza. Non con investimenti, ma con minacce, dazi e gesti simbolici. Apple è la vittima perfetta: americana, potente, iconica, globalista, ma strutturalmente dipendente dal mondo. Attaccarla significa affermare che nessun colosso può vivere al di sopra della sovranità politica, nemmeno quella californiana.
Eppure, in tutto questo, Trump non può davvero fare a meno di Apple. Né delle piattaforme, né dei colossi digitali che finge di amare e disprezzare in un bipolarismo politico incomprensibile, mentre ne dipende per la visibilità, per il consenso, per la logistica dell’economia che ancora tiene insieme gli Stati Uniti. Da un lato li minaccia, dall’altro li blandisce; li costringe a rientrare ma li usa per dimostrare che può ancora tenere il centro della scena. È un rapporto perverso, in cui la politica non guida la tecnologia, ma cerca disperatamente di recitare la parte della prima donna in un palcoscenico che non controlla più.
Quella che Trump mette in scena è una supremazia della politica solo apparente, fatta di gesti spettacolari ma privi di visione. Una politica che ordina, ma non sa cosa costruire. Che impone, ma non accompagna. Che richiama all’obbedienza industriale, senza comprendere i processi, le filiere, le dinamiche materiali e cognitive che rendono oggi la tecnologia non solo un’infrastruttura produttiva, ma un ecosistema sociale, ambientale, planetario.
La minaccia del dazio, la retorica della sovranità, l’idea di riportare “a casa” la produzione sono strumenti logori, figli di un tempo in cui si poteva ancora pensare in termini di confini e fabbriche. Ma oggi la posta in gioco è un’altra. Non si tratta di difendere l’interesse nazionale, ma di ricostruire un senso del bene comune digitale. Non si tratta di costringere Apple a spostare l’assemblaggio da Chennai all’Ohio, ma di chiedersi per chi, per cosa e in nome di chi si producono centinaia di milioni di dispositivi ogni anno.
E se non si persegue questa posta in gioco, se si continua a rispondere alla complessità globale con misure protezionistiche, minacce unilaterali, ritorni immaginari a un passato industriale che non c’è più, le conseguenze non saranno solo economiche. Saranno politiche, sociali, civili. Perché quando lo Stato rinuncia a comprendere questi nuovi ecosistemi che plasmano il presente, finisce per perdere non solo il controllo, ma il senso stesso della propria funzione. E quando la democrazia ha delegato l’organizzazione della vita collettiva alle logiche del mercato globale, ha smarrito la capacità di negoziare, regolare, distribuire. Ma oggi quella delega non è più silenziosa. Trump non si limita a lasciare che il mercato decida: cerca di rientrare in scena, di riaffermare la primazia della politica, di riprendersi il centro decisionale. Lo fa però con strumenti di forza, senza progettualità condivisa, senza un’idea di giustizia o di bene comune. Interviene non per costruire un ordine nuovo, ma per piegare quello esistente alla propria logica di comando. È una reazione, non una visione. Una lotta per il controllo, non per la trasformazione. E così la politica si afferma non come forma di cura, ma come gesto di dominio. L’alternativa al potere delle big tech non può essere una sovranità autoritaria, muscolare, incapace di comprendere la complessità delle reti, dei flussi, dei territori. Perché senza una nuova architettura della convivenza, senza un progetto che ricostruisca l’alleanza tra tecnologia, comunità e pianeta, ogni tentativo di riportare “a casa” la produzione sarà solo una mossa teatrale, destinata a crollare sotto il peso della sua inutilità.
In un contesto simile, il rischio non è solo quello di perdere sovranità, ma di perdere legittimità. Di diventare un guscio vuoto: incapace di tutelare i diritti, di garantire un futuro, di dire la verità. È allora che nascono, speriamo le rivolte pacifiche. Non perché i cittadini siano nemici dell’ordine, ma perché intuiscono che l’ordine ha smesso di occuparsi di loro. È in questa frattura, tra la retorica della politica e la realtà del potere algoritmico — che si apre lo spazio per il caos: disintermediazione, sfiducia, polarizzazione, autoritarismo. Non muore lo Stato, ma muore la sua credibilità. Non scompare la democrazia, ma resta come parola vuota, mentre le scelte reali, sull’energia, sui dati, sui territori, sulle intelligenze, vengono prese altrove, da centri opachi, remoti, impermeabili a ogni istanza sociale. Ecco perché oggi non basta rilanciare la manifattura. Serve ripensare cosa significhi produrre in modo giusto in un mondo interdipendente, in un pianeta esausto, in una società attraversata da fratture cognitive, ecologiche, politiche. Senza questa riflessione, la tecnologia non sarà mai alleata della democrazia, ma il suo involucro più sofisticato e più vuoto.
La politica, se vuole davvero sfidare il potere delle big tech, deve uscire dalla logica del comando e rientrare nella sfera della responsabilità. Deve imparare a decifrare il codice che lega hardware, lavoro, estrazione, intelligenza artificiale e comunità. Deve superare l’ossessione della sovranità come imposizione territoriale per abbracciare una sovranità relazionale, territoriale sì, ma orientata al mondo, capace di immaginare una tecnologia al servizio della vita, non della competizione. In questo senso, Trump non sta proponendo un’alternativa. Sta semplicemente tentando di piegare il presente a una forma di potere che non funziona più. E lo fa con i gesti teatrali che conosce: i dazi, le minacce, le conferenze stampa show. Ma non è così che si cambia la traiettoria dell’innovazione. Non è così che si aiutano le comunità e non è così che si protegge il pianeta.
Chi possiede un iPhone, oggi, non tiene in mano solo un telefono. Tiene in mano una tensione geopolitica codificata. Lo porta in tasca come un passaporto, come una bandiera, come una promessa tecnologica che vale solo finché il mondo regge. Eppure, continuiamo a pensarlo come un oggetto neutro. È questo l’inganno più profondo della tecnologia contemporanea: farsi passare per naturale, inevitabile, pacifica. Anche quando porta il segno, chiaro, inequivocabile, di un conflitto che si fa sempre più materiale, e sempre meno visibile.