Questo post nasce anche grazie ai molti commenti, critiche, divergenze e osservazioni che hanno accompagnato, sui social e altrove, la pubblicazione di un articolo di qualche giorno fa. Non come correzione, ma come prosecuzione. Come tentativo di approfondire e articolare meglio le implicazioni di una domanda che resta aperta: cosa significa oggi pensare con l’AI, non al posto dell’AI?
Forse è proprio questo, il confronto che si genera a partire da uno scritto, la tensione tra chi legge e chi scrive, l’impossibilità di chiudere la riflessione in una formula definitiva, a rappresentare il primo gesto concreto di una “biblioteca”. Una biblioteca che non si costruisce una volta per tutte, ma si espande attraverso variazioni, retroazioni, differenze.
E allora ho riletto “Libraries of the Future” di Licklider in una biblioteca civica, una mattina d’agosto, con i computer accesi e poche persone intorno. E mi è sembrato chiaro che Licklider non stesse solo parlando di reti e sistemi, ma di una forma di ospitalità cognitiva. Non un’infrastruttura per contenere il sapere, ma un ambiente per farlo accadere.
Nel senso ormai fossilizzato della parola cyber, impiegata oggi con disinvoltura per definire guerre digitali, strategie militari, crimini informatici o tecnologie di intrusione, sopravvive ancora, anche se sotto strati spessi di fraintendimento, il suo significato originario. Non quello del controllo, dell’automazione o dell’ottimizzazione, ma quello più antico, dal greco kybernetes: il timoniere, colui che orienta senza imporre, che non determina la rotta ma la governa attraverso variazioni, deviazioni, retroazioni, imperfezioni. La cibernetica, prima di diventare una tecnica o una dottrina, è stata un’arte dell’equilibrio tra sistemi viventi e artificiali, un sapere ecologico e relazionale, una grammatica per abitare l’incertezza.
È dentro questa genealogia profonda sta il pensiero di J.C.R. Licklider, figura spesso trascurata dell’informatica del secondo Novecento. Psicologo e informatico visionario, è stato tra i fondatori dell’idea di interazione uomo-macchina simbiotica e uno dei principali artefici del passaggio dalla computazione centralizzata a quella distribuita. Come direttore dei programmi informatici all’ARPA nei primi anni ’60, sostenne e finanziò progetti fondamentali per lo sviluppo della rete ARPANET, preludio di Internet. Ma più ancora delle infrastrutture, ciò che distingue Licklider è la sua capacità di pensare il computer non come macchina di calcolo, ma come partner cognitivo, strumento per amplificare l’intelligenza umana e costruire ambienti cooperativi del sapere. Nel 1965 pubblica Libraries of the Future, un testo che andrebbe oggi letto non come documento storico, ma come tentativo ancora incompiuto di costruire una cibernetica pluralista, cooperativa e non predittiva. Licklider non si limita a immaginare la transizione dalle biblioteche cartacee a quelle digitali, né si limita a prevedere, con sorprendente anticipo, l’emergere di reti informatiche distribuite o di interfacce interattive; ciò che lo distingue è piuttosto la sua capacità di pensare la tecnologia come infrastruttura epistemica, come ambiente cognitivo condiviso, come dispositivo che non sostituisce l’intelligenza umana, ma la accompagna nella sua espressione più situata e dialogica.
Il principio della sua analisi è il concetto di procognitive system, ovvero di un sistema capace non solo di archiviare, processare o restituire informazioni, ma di partecipare alla costruzione dinamica del sapere, attraverso la cooperazione tra attori eterogenei, programmatori, studiosi, utenti, macchine, (oggi anche tutti gli essere viventi e non del pianeta) con linguaggi diversi ma capaci di traduzione reciproca. Questo sistema non è disegnato per offrire risposte corrette, ma per rendere possibile una navigazione condivisa nel campo del pensabile. È in questo contesto che Licklider introduce la nozione di intermedium, concetto, ripreso anche da altri autori cyber, che non designa una semplice interfaccia tecnica, ma l’insieme delle condizioni materiali, percettive, corporee e cognitive che rendono possibile, o al contrario ostacolano, l’interazione significativa tra l’umano e il computazionale. L’intermedium comprende la tastiera e lo schermo, certo, ma anche la postura del corpo, la qualità del linguaggio, l’ergonomia delle funzioni, la flessibilità semantica, la capacità di ospitare l’ambiguità senza ridurla.
Non è un dettaglio, né un orpello tecnico: è ciò che decide se un pensiero può articolarsi, se una domanda può nascere, se una differenza può emergere. Per Licklider, una macchina che impedisce questa continuità, una macchina che interrompe, riduce, semplifica, impone, non è uno strumento neutro, ma un ostacolo epistemico, una barriera invisibile alla costruzione della conoscenza. Ed è proprio in questo che la sua idea di biblioteca del futuro si differenzia radicalmente dalle attuali piattaforme digitali, le quali, pur offrendo un accesso pressoché illimitato all’informazione, operano secondo logiche di filtraggio, ottimizzazione e compatibilità che minano alla radice la possibilità stessa del pensiero divergente.
Se oggi disponiamo di tecnologie che, almeno in superficie, sembrano incarnare molte delle intuizioni di Licklider, intelligenze artificiali, interfacce neurali, motori semantici, archivi iperconnessi, ciò che manca è l’attenzione al progetto cibernetico come costruzione ecologica della conoscenza, come architettura aperta alla differenza, alla lentezza, all’errore, al rumore. Abbiamo sistemi intelligenti, ma strutturati per riconoscere solo ciò che è già compatibile; abbiamo accesso a una quantità inedita di dati, ma la relazione tra quei dati si è fatta opaca, automatizzata, spesso estranea alla comprensione situata del soggetto che li interroga. Abbiamo macchine che rispondono con efficacia, ma sempre meno ambienti che ci aiutino a formulare domande significative, domande che siano gesti cognitivi generativi.
In questa condizione, la riflessione di Licklider ci appare non tanto come un’anticipazione felice quanto come un’eredità ancora da raccogliere, una bussola per ripensare il nostro rapporto con l’intelligenza artificiale non in termini di prestazione o di produttività, ma in termini di coabitazione cognitiva, di pluralità epistemica, di progettazione relazionale degli ambienti del sapere.
Ecco perché è un errore teorico prima ancora che politico liquidare l’intelligenza artificiale come una tecnologia intrinsecamente regressiva, o pensare che il suo impatto sulla cognizione umana sia necessariamente impoverente. Leggendo Licklider oggi ci si accorge che la sua biblioteca del futuro non è soltanto un archivio intelligente, ma un laboratorio di emancipazione cognitiva, un ambiente progettato per espandere le possibilità di apprendimento, per moltiplicare le connessioni tra saperi, per offrire a chiunque, indipendentemente dalla sua formazione, dalla sua posizione sociale, dalla sua appartenenza culturale, la possibilità concreta di prendere parte alla costruzione della conoscenza. È in questa direzione che l’intelligenza artificiale, se fondata su una logica cibernetica autentica e sulla cosmocologia della conoscenza, potrebbe diventare uno strumento potente di democratizzazione del talento e del merito, non come sistema di selezione o di giudizio, ma come ambiente abilitante, in cui ognuno sia messo nella condizione di coltivare il proprio potenziale, di migliorarsi, di apprendere attraverso forme di interazione che riconoscano e valorizzino la differenza. Un’intelligenza artificiale davvero cibernetica, nel senso più profondo e relazionale del termine, esiste forse solo in forma embrionale, nei margini della ricerca, in alcune pratiche artistiche, pedagogiche o comunitarie. Ma è da lì, da quelle esperienze liminali, che possiamo iniziare a costruire un altro immaginario tecnico. Non un sistema predittivo, ma un ambiente dell’intelligenza. Un’intelligenza artificiale cibernetica non assegna punteggi, non premia l’efficienza, non standardizza la performance, ma costruisce condizioni di accesso, ambienti di ascolto, occasioni di crescita. Non distribuisce risposte, ma abilita percorsi, lasciando che sia la pluralità dei soggetti a generare le domande.
C’è però una tensione che non si può eludere: parlare di democratizzazione del talento e del merito implica sempre, in filigrana, la presenza di criteri, soglie, riconoscimenti. Ma il merito, per definizione, è una costruzione comparativa: esiste solo rispetto a un quadro di valutazione, a una metrica, a una norma. Come conciliarlo allora con l’aspirazione a un sistema realmente inclusivo, non standardizzante, capace di accogliere forme di intelligenza non misurabili secondo i parametri consueti? È qui che il pensiero cibernetico, se non ridotto a tecnica dell’efficienza, può offrire un’altra prospettiva: non quella di un sistema che valuta dall’alto, ma quella di un ambiente che moltiplica le condizioni di emersione, in cui il merito non coincide più con l’adattamento al criterio dominante, ma con la capacità di generare relazioni, aperture, trasformazioni. Non un indice di prestazione, ma una forma di contributo situato, riconosciuto non per la sua produttività, ma per la sua capacità di alterare le forme del sapere condiviso. Una sfida enorme, certo. Ma necessaria, se vogliamo evitare che anche le migliori intenzioni si traducano in nuovi dispositivi di esclusione cognitiva.
È proprio in questo passaggio, tra AI come acceleratore della scrittura e AI come regime di compatibilità epistemica, che la cibernetica può tornare a essere una risorsa teorica e politica. Non per rendere l’AI più trasparente o meno pericolosa, ma per riconcepire l’intermedium non come semplice interfaccia, ma come ambiente pluralista della conoscenza, come spazio in cui la singolarità può ancora avere diritto di cittadinanza, anche quando si esprime fuori formato. Ripensare oggi la cibernetica significa esattamente questo: non limitarsi a ottimizzare gli strumenti, ma progettare le condizioni materiali, simboliche e cognitive attraverso cui quei medesimi strumenti possono favorire l’intelligenza nella sua forma più piena, più relazionale, più resistente alla standardizzazione.
Va però riconosciuto che questa lettura di Licklider e della cibernetica rischia di essere parziale. Anche nelle sue formulazioni più sofisticate, la cibernetica storica non fu mai del tutto estranea a logiche di controllo e ottimizzazione. Presentarla come intrinsecamente pluralista e aperta significa forzare una tradizione teorica complessa e ambivalente. Ma è proprio da questa ambivalenza che può riemergere oggi, se riletta criticamente, una possibilità ancora attiva di pensare tecnologia e conoscenza fuori dal paradigma della neutralità tecnica.
La sfida dunque non è costruire sistemi più performanti, ma ambienti che ci permettano di pensare insieme senza diventare uguali. Tuttavia, non basta affermarlo sul piano simbolico o teorico. Bisogna cominciare a chiedersi come si progetta, oggi, un’interfaccia che non imponga ma ospiti, che non semplifichi ma accompagni; come si struttura un’AI che non calcoli la pertinenza ma apra spazi di significazione; come si danno forma, nella pratica, a sistemi di conoscenza cooperativi, inclusivi, attraversabili anche da chi oggi resta ai margini del discorso computazionale.
Questo significa interrogare le condizioni materiali, economiche e politiche della tecnologia: chi la produce, con quali dati, per quali fini, in quale lingua e con quale idea di sapere. Senza questa torsione progettuale, il rischio è che la cibernetica resti una metafora e la biblioteca del futuro un sogno elegante ma disattivato. Ma se invece prendiamo sul serio la sfida, allora Licklider non ci parla del passato, ma ci indica una strada ancora percorribile, a patto di rimettere in discussione le fondamenta stesse del nostro modo di costruire tecnologia e intelligenza.
Immagine: San Girolamo nel suo studio, 1474, di Antonello da Messina. Un’introspezione nel gesto del leggere e del tradurre, che risuona con l’idea dell’intermedium come spazio articolato di sapere situato.