L’intelligenza tecnologica non è neutra. E non è nelle vostre mani

di Nicola Pirina e Michele Kettmajer

Questo è un testo lungo. Parte da lontano, da Pula, durante i primi mesi del 1993, quando venne acceso il primo server web italiano. Un gesto silenzioso e potente che avrebbe potuto inaugurare una stagione di sovranità digitale e che invece rimase perlopiù un’eccezione isolata, dimenticata in fretta come tutte le cose che non hanno un mercato dietro a sostenerle o una politica a proteggerle; oggi, trentadue anni dopo, quella stessa isola, la Sardegna, potrebbe diventare il cuore di una nuova rivoluzione tecnologica, quella quantistica, senza essere spettatrice muta di una trasformazione epocale che rischia di consolidare ancora una volta lo schema coloniale dell’innovazione: pochi centri globali di produzione, molti territori periferici destinati a consumare ciò che altri decidono, progettano, brevettano. L’Italia, nonostante i proclami, i talenti, le eccellenze accademiche e le storie di ricercatori che brillano nei laboratori di tutto il mondo, continua a muoversi a scatti, senza strategia, con risorse inadeguate e con una cultura politica che tratta le tecnologie quantistiche come una curiosità futuristica, un affare da convegno, più che come un’infrastruttura essenziale per la sovranità scientifica ed economica del paese. Mentre Stati Uniti, Canada, Germania e Francia investono miliardi, consolidano alleanze industriali, aprono accessi via cloud a dispositivi da 100 o 1000 qubit, alimentano un ecosistema in cui la ricerca si trasforma in servizio e la sperimentazione è il metodo ordinario dell’innovazione, l’Italia si accontenta di misure frammentarie, di piattaforme debolmente connesse, di un investimento pubblico che vale meno di quanto una sola multinazionale americana spende in un singolo accordo con una singola università, e tutto questo nonostante le risorse del PNRR, le competenze esistenti e la presenza di centri come il CRS4, che potrebbero diventare snodi strategici a patto di usarli per ciò che sono: infrastrutture pubbliche pronte a diventare testimoni operativi di un riscatto possibile. E i segnali sono già disponibili, come riconoscere ciò che oggi viene chiamato Quantum-as-a-Service o Research-as-a-Service. In altri termini, l’accesso via cloud a risorse di calcolo quantistico e a competenze di ricerca avanzata, senza doversi dotare in proprio di costose infrastrutture o interi team specialistici. È una democratizzazione dell’innovazione: chiunque, da qualsiasi parte del globo, può sperimentare algoritmi quantistici o avviare progetti di ricerca, pagando “a consumo” come un’utenza energetica.

Negli USA, patria della Silicon Valley, il movimento è guidato dai giganti tecnologici e da forti investimenti pubblici strategici. Fin dal National Quantum Initiative Act del 2018, un programma federale da oltre 1,2 miliardi di dollari, gli Stati Uniti hanno posto la leadership quantistica tra le priorità nazionali. I risultati si vedono: circa il 70% degli esperti mondiali ritiene gli Stati Uniti leader nell’adozione del quantum computing, mentre l’Europa fatica a tenere il passo. Colossi come IBM, Google, Microsoft, Amazon hanno sviluppato proprie piattaforme quantistiche cloud, rendendo disponibili processori quantistici sperimentali ai ricercatori di tutto il mondo. Mentre l’Europa arranca anche se sta provando a colmare il gap con un mix di cooperazione comunitaria e sforzi nazionali. Secondo un’indagine Quera Computing del 2025, ben il 70% degli operatori percepisce gli USA come leader e vede l’Europa affannata all’inseguimento. Questo si riflette anche in un minor numero di startup deep-tech quantistiche rispetto agli Stati Uniti, e in minori investimenti privati. Va detto però che in alcuni settori (sensori quantistici, orologi atomici, crittografia QKD) l’Europa è all’avanguardia: ad esempio, i primi satelliti quantistici europei per comunicazioni sicure (progetto SAGA) sono in sviluppo, e l’Italia con il CNR ha dimostrato esperimenti di entanglement tra Terra e spazio.

E arriviamo all’Italia; se si guarda ai numeri, non c’è bisogno di fare retorica, perché l’aritmetica è già crudele di suo. Mentre Germania, Francia, Stati Uniti e Cina muovono miliardi in infrastrutture quantistiche e programmi nazionali, l’Italia si muove tardi, poco e frammentata, con circa 140 milioni in tre anni contro i tre miliardi tedeschi in dieci, e con un settore privato che investe cifre da bilancio marginale; l’Osservatorio del Politecnico di Milano definisce i contributi privati come “residuali” e molto limitati. Sebbene il PNRR abbia finalmente messo in moto alcuni cantieri fondamentali, dal Centro Nazionale HPC e Quantum Computing con sede al Tecnopolo di Bologna, al Partenariato NQSTI sulla ricerca di base, e sebbene il piccolo prototipo a superconduttori realizzato a Napoli nel 2024 rappresenti un segnale da non sottovalutare, resta il fatto che siamo in ritardo strutturale, cresciamo meno degli altri, corriamo ma non recuperiamo, e soprattutto ci manca ancora ciò che fa la differenza tra un sistema vivo e uno episodico: un’infrastruttura nazionale realmente accessibile, continua, interoperabile, che consenta sperimentazione concreta senza dover passare sempre e solo per i cloud delle big tech straniere, perché se a Torino e Bologna iniziano ad apparire le prime macchine on-demand, la verità è che fino a ieri chi voleva fare quantum in Italia doveva rivolgersi a IBM o ad Amazon, mentre i nostri talenti,  quelli veri, si muovevano verso l’estero, attratti da ecosistemi che non solo li accoglievano, ma li mettevano subito in condizione di costruire, e in questo quadro è paradossale che il 41% degli intervistati nel paese ritenga che siamo “in linea col mondo”, mentre solo un terzo percepisce il ritardo: forse perché la percezione non basta, se non è sostenuta da una visione, da numeri, da infrastrutture, da strategie che non siano solo reattive, ma fondate su una volontà di riscatto, su un’idea del sapere come leva territoriale e non come decorazione da convegno.

Ma quali vantaggi porta QaaS (Quantum-as-a-Service) e RaaS (Research-as-a-Service)?

Accesso democratizzato alle tecnologie avanzate: grazie al cloud, anche piccole realtà possono usare hardware e software quantistici di alto livello senza investimenti infrastrutturali, pagando solo ciò che consumano.

Riduzione drastica dei costi e dei rischi: si evitano spese milionarie in apparecchiature, potendo sperimentare con costi contenuti e senza il rischio di puntare su tecnologie che potrebbero diventare obsolete.

Aggiornamento continuo e scalabilità: le piattaforme cloud aggiornano regolarmente hardware e software, garantendo agli utenti accesso costante allo stato dell’arte, senza dover riconfigurare laboratori.

Collaborazione globale e formazione accelerata: i team possono lavorare insieme ovunque si trovino, condividendo strumenti e competenze in tempo reale, creando ecosistemi di apprendimento e innovazione distribuiti.

Libertà di sperimentazione: le aziende possono testare rapidamente diversi approcci tecnologici, senza vincolarsi a una sola architettura fisica, riducendo i tempi per identificare soluzioni promettenti.

Focalizzazione sul valore, non sulla gestione tecnica: con il RaaS, la ricerca di base e lo sviluppo di prototipi vengono esternalizzati a team esperti, permettendo alle imprese di concentrarsi sulle applicazioni pratiche.

Se ci pensate in fondo non è che la materializzazione di un’idea antica ma sempre ignorata in questo paese: l’innovazione non è una retorica da festival ma una questione di accesso, continuità, e soprattutto distribuzione di potere, e se questo potere resta concentrato nei soliti luoghi metropolitani allora ogni dichiarazione sulla coesione territoriale, sulla missione Mezzogiorno, sulla transizione digitale sarà solo l’ennesima promessa senza corpo. 

Ecco allora perché la proposta di un Quantum Sandbox Insulare in Sardegna non è un esercizio di branding regionale né una fantasia da visionari isolani, ma una necessità politica, una strategia di compensazione, un progetto che, se attuato con coerenza, potrebbe trasformare la marginalità geografica in laboratorio di sperimentazione. Per “sandbox” si intende, in ambito tecnologico e normativo, uno spazio protetto e regolato in cui è possibile sperimentare nuove tecnologie, soluzioni e modelli organizzativi con maggiore libertà, senza le rigidità degli ambienti normativi standard, ma con regole chiare e finalità pubbliche. È un luogo di prova, ma non fittizio: è dove si costruiscono i prototipi del futuro, dove si testano i limiti e si definiscono nuove soglie. Nel nostro caso, è il tentativo concreto di costruire un’infrastruttura dove la computazione quantistica, la proprietà collettiva dei dati, la governance distribuita e la giustizia territoriale non siano slogan, ma materia viva di un’ecologia computazionale che parte dai margini per riscrivere il centro. Potrebbe trasformare la marginalità geografica in laboratorio di sperimentazione, la fuga dei cervelli in attrazione di competenze, il divario digitale in leva per inventare un modello radicalmente nuovo di innovazione decentrata e territoriale, in cui i centri computazionali non siano solo luoghi di calcolo ma presìdi democratici, nodi culturali, piattaforme pubbliche al servizio di un’idea diversa di sviluppo. La Sardegna ha tutto: un passato tecnologico spesso ignorato, un capitale umano disperso, un’infrastruttura HPC (un sistema di calcolo ad alte prestazioni) già operativa, un sistema universitario che può essere rafforzato per generare competenze e trattenerle, spazi fisici e digitali in cui immaginare un’alleanza tra AI, quantistica e governo dei dati fondata sul principio che l’informazione è un bene comune e che il calcolo non è neutro ma situato, e quindi deve essere restituito ai territori, alle comunità, agli ecosistemi locali che di quei dati sono autori e non semplici fornitori. Per questo ha senso proporre un Quantum Sandbox Insulare che non sia solo installazione di hardware ma prima di tutto un laboratorio politico-istituzionale in cui testare la proprietà collettiva delle infrastrutture digitali, la connessione tra computazione quantistica e reti civiche, la messa in rete dei bisogni territoriali e degli strumenti computazionali necessari a elaborarli, rendendo accessibili come servizio, e non come privilegio, sia la potenza di calcolo che l’expertise necessaria a trasformarla in valore per il tessuto produttivo e sociale. Un sandbox non come luogo chiuso ma come interfaccia aperta, dove si sperimentano algoritmi per il monitoraggio ambientale, ottimizzazioni logistiche per sistemi energetici distribuiti, modelli di AI per la gestione del patrimonio archeologico o naturalistico, piattaforme quantistiche come servizio civico in supporto a decisioni pubbliche complesse, e soprattutto dove ogni progetto è costruito su un diritto negoziato e riconosciuto alla titolarità del dato, un principio semplice ma rivoluzionario: se il dato nasce da un territorio, deve poter essere riusato e condiviso da chi quel territorio lo abita e lo cura. È da questa postura che la Sardegna può partire non come destinataria di fondi o eccezione da colmare ma come nodo avanzato di un nuovo progetto europeo per l’innovazione, capace di dialogare alla pari con i centri di Waterloo, Espoo, Vienna, non con l’arroganza del centro né con il complesso della periferia, ma con la forza generativa di chi propone un’alternativa: un’infrastruttura pubblica, collettiva, distribuita, fondata sulla giustizia territoriale e sulla riduzione delle dipendenze digitali, in cui AI, quantum computing e governance locale si integrano non per fare spettacolo, ma per costruire soluzioni. Se oggi una startup europea o una public utility asiatica potessero trovare in Sardegna un accesso diretto a una piattaforma quantistica locale, un supporto RaaS integrato con le università, un contesto normativo semplificato e chiaro, e un’alleanza istituzionale tra Regione, Stato e reti internazionali, allora l’isola non sarebbe più un luogo da connettere ma una sorgente da cui partire per ripensare il rapporto tra tecnologie emergenti e infrastrutture civiche. In questo senso, la proposta non è né tecnocratica né localista: è un progetto pilota universale, applicabile altrove, replicabile, ma che inizia da un luogo preciso, con un’identità forte e una disponibilità storica alla sperimentazione, e che si fonda su un’idea precisa: l’intelligenza, oggi, non è più solo nelle menti o nei chip, ma nella capacità di articolare ecologie cognitive, culturali, energetiche e sociali in un insieme coerente, e in questo la Sardegna ha tutte le condizioni per ospitare, sostenere e guidare una nuova ecologia quantistica dell’innovazione. Tutto questo non è solo un piano per la Sardegna ma un invito a ripensare l’intera infrastruttura su cui oggi si costruisce il potere computazionale in Italia, perché non basta installare macchine o aggiornare convegni, non serve rincorrere le roadmap di altri se non si tocca la questione strutturale che è politica prima ancora che tecnologica, cioè chi possiede il calcolo, chi lo governa, chi decide le sue priorità, perché se il quantum diventa semplicemente un nuovo layer di potere nelle mani delle stesse piattaforme che oggi estraggono dati, marginalizzano territori e concentrano decisioni, allora non abbiamo fatto alcun passo avanti, e per questo l’unica proposta che ha senso oggi è quella che unisce infrastruttura fisica, architettura giuridica e visione politica, ovvero la costruzione deliberata di una nuova infrastruttura comunitaria per l’intelligenza artificiale e il calcolo avanzato, un’architettura distribuita, pubblica, condivisa, fondata sul principio che i dati sono un bene comune territoriale, che le reti neurali non possono essere addestrate su ciò che appartiene ai corpi, alle lingue, ai paesaggi senza una forma di restituzione giuridica e sociale, che ogni nodo computazionale, sia esso una GPU in un comune alpino o un processore quantistico in una regione insulare, debba essere parte di un disegno federato di sovranità collettiva, che i modelli AI debbano essere concepiti come commons negoziati e non come moduli chiusi da noleggiare, e che le comunità abbiano diritto non solo all’accesso ma alla definizione degli scopi, dei limiti, dei linguaggi con cui quell’intelligenza si manifesta. Il Quantum Sandbox Insulare è solo un primo passo, ma serve ad aprire il campo: serve a mostrare che si può, che esiste un’altra via rispetto al dualismo sterile tra piattaforme private e grandi piani nazionali astratti, che si può partire da un territorio concreto, la Sardegna, come simbolo e come luogo, per costruire un modello operativo replicabile, dove calcolo, energia, conoscenza, governance e accesso si tengano in un equilibrio che non è solo tecnico ma politico, esistenziale, e che può essere il fondamento per una nuova ecologia dell’intelligenza artificiale: un’ecologia che tiene conto dei vincoli termici, della scarsità energetica, della densità culturale dei dati, della necessità di limitare l’asimmetria computazionale, della possibilità di costruire alleanze tra territori, università, reti civiche, imprese locali e istituzioni pubbliche per dar vita a una federazione italiana dell’AI territoriale, che non sia né nostalgia localista né delega tecno-nazionale, ma espressione consapevole di una volontà: quella di tornare a progettare il futuro con i piedi nella terra, gli occhi nel mondo e la rete nei nostri server, non in quelli degli altri.

Chi scrive queste righe, con un impegno radicato e quotidiano nell’immaginare e costruire architetture istituzionali, economiche e culturali per l’innovazione in Italia, sa bene che ci troviamo dentro una soglia cruciale, non tanto perché oggi manchino iniziative, alcune importanti sono in corso, ma perché rischiano di restare episodiche, non strutturali, frammentate, prive di quel respiro strategico che serve per trasformare un paese marginale in un attore capace di orientare, almeno in parte, i codici futuri della computazione, della conoscenza e della sovranità digitale. Potremmo scegliere di continuare a muoverci con la prudenza tattica di chi aspetta che siano altri a definire linguaggi, architetture e priorità, sperando di agganciarsi più tardi a una filiera già consolidata, con il risultato però di condannare regioni come la Sardegna a una funzione ancillare, logistica, estrattiva, oppure potremmo scegliere di usare proprio quella perifericità come condizione di possibilità, come zona franca epistemologica, come laboratorio avanzato di sperimentazione quantistica, territoriale, normativa, capace di accogliere margine, rischio, fallimento, ma anche prototipazione, alleanze, redistribuzione e nuovi commons; non si tratta di esaltare il talento creativo italiano con i soliti cliché sulla genialità e il pensiero laterale, ma di assumere con freddezza e coraggio la responsabilità di fornire ai saperi, che già esistono, le condizioni materiali e infrastrutturali per agire, dentro un orizzonte di lunga durata, e con la consapevolezza che ogni mese perso oggi si trasforma in una decade da rincorrere domani; non è questione di rincorrere treni già partiti, ma di decidere se costruirne uno proprio, con un binario diverso, magari meno veloce, ma più aderente al territorio, più aperto alla cooperazione, più attento alla dimensione pubblica del sapere computazionale; ed è esattamente in questa direzione che la Sardegna può diventare ciò che oggi manca: non una vetrina di buone pratiche, ma un’infrastruttura reale, condivisa, intergenerazionale, che sperimenta ciò che l’Italia ancora non osa progettare, che non imita ciò che altrove funziona, ma costruisce un’altra strada a partire da ciò che è stato scartato, ignorato o ritardato, e che per questo può diventare centrale proprio perché ancora periferico. Non c’è innovazione senza rischio politico, né sovranità senza infrastrutture proprie. Chi controlla il calcolo decide il mondo: è tempo di riaprire il patto tra tecnologia, comunità e libertà.

Nicola Pirina e Michele Kettmajer

Immagine: Trevor Paglen – Autonomy Cube. Un cubo trasparente, apparentemente innocuo, che nasconde al suo interno un sistema Tor per l’anonimizzazione del traffico dati. Arte concettuale, ma perfettamente politica: esprime l’idea che anche la trasparenza può essere una maschera del controllo e che la sovranità digitale è una questione di infrastruttura, non di estetica.