Sto salendo da Vietri, dove insieme a molti abbiamo ricordato Salvatore Iaconesi.
Salvatore non ha mai chiesto il permesso di usare la tecnologia. L’ha presa, l’ha scardinata, l’ha trasformata in gesto, in corpo, in relazione. Quando ha pubblicato online il proprio tumore come atto di condivisione radicale, quando ha violato l’opacità delle macchine per restituire ai dati una dimensione affettiva e collettiva, ha fatto molto più che hacking: ha fatto diplomazia incarnata, accademia situata, politica del possibile. La tecnologia, per lui, non era mai una soluzione. Era uno spazio da abitare. Un territorio da riplasmare. Un linguaggio da riconsegnare ai corpi.
Sto salendo verso Montagnaga di Piné.
Il Santuario nasce da una visione contadina, non da un decreto. Da tre secoli è attraversato da corpi, preghiere, cammini. È una forma di infrastruttura spirituale che non chiede legittimazione, ma genera senso. Nessun algoritmo può mappare quella fiducia collettiva, quella liturgia diffusa che si tramanda senza server. Montagnaga è la prova che esistono ancora luoghi dove il sacro non si amministra ma accade, e dove l’intelligenza, prima che artificiale, resta relazionale.
Questi giorni Montagnaga ospita il workshop del Nodo di Gordio.
E il suo presidente, Daniele Lazzeri, mi racconta sempre che il Nodo non nasce per spiegare il mondo, ma per attraversarne le fratture; non offre soluzioni, ma apre spazi di studio e intuizione dove diplomazia, accademia e immaginario si incontrano.
Non è un caso che si parli di diplomazia proprio qui, a Montagnaga, tra visioni contadine e cammini lenti. Perché la diplomazia vera non vive nelle capitali, ma ai bordi. Non nei comunicati, ma nelle relazioni imperfette.
Come nella parola rivale, che viene da rivus, il ruscello: erano rivali coloro che abitavano su sponde diverse dello stesso corso d’acqua. Non erano nemici, erano prossimi. Condividevano la stessa fonte, la stessa sete, ma non la stessa visione. Ecco dove si esercita davvero la diplomazia: nel tenere insieme ciò che scorre, senza farlo collidere. Nell’abitare la tensione senza ridurla a calcolo. Non è una tecnica di accordo, ma una pratica di presenza. Non si insegna nei trattati, ma nei territori.
E questa è la lunga premessa per scrivere qui alcune righe per confrontarmi insieme a molti altri nel panel di oggi.
Nel 1861 Don Bosco non cercava un torchio. Cercava una leva per sovvertire la geografia del potere. A Torino, nel cuore dell’Oratorio di Valdocco, nel retro di un ex dormitorio riadattato, installò le prime macchine da stampa. All’inizio erano mezzi di fortuna, e i tipografi erano ragazzi senza mestiere, strappati alla strada, figli di operai e contadini. Ma non era un esperimento tecnico: era un atto di diplomazia culturale. In una città che era allora la capitale dell’editoria laica e scolastica, Don Bosco non chiese spazio: lo costruì. Mise in piedi una tipografia, poi una scuola, poi una rete. Stampava per salvare, ma anche per formare. Non solo nel senso spirituale, ma nella dimensione politica più profonda: dare voce, dare mestiere, dare senso.
Sapeva che non bastava proteggere i giovani. Bisognava inserirli nella filiera culturale. Farli diventare operai di una nuova intelligenza popolare. Stampava Vangeli e grammatiche, vite di santi e manuali tecnici, volantini e giornali. Tutto dentro uno stesso gesto: restituire potere a chi non lo aveva. E oggi?
Oggi siamo immersi in una nuova infrastruttura: non più inchiostro e piombo, ma silicio e dati. L’intelligenza artificiale non è uno strumento neutro, è una forma di potere che si distribuisce senza chiedere permesso. Produce mondo, orienta linguaggi, disegna possibilità. E noi stiamo ancora qui a discutere se vada regolata, come se non fosse già all’opera da anni.
L’inferno non è più sotto. È intorno. Non ha fiamme, ha interfacce; lo scrive Timothy Morton nel suo ultimo libro, Hell: In Search of a Christian Ecology. È la struttura che abitiamo. Sta nelle piattaforme, nei modelli predittivi, nelle metriche che decidono per noi. E se non riconosciamo che questa infrastruttura è già governance, se diplomazia e accademia continuano a rincorrere il tempo invece di costruirlo, allora ci limiteremo a verbalizzare un mondo deciso altrove. L’intelligenza artificiale è la nuova rotativa. Chi la possiede, possiede le menti. Ma per molti questo non fa ancora problema. Perché si continua a pensare alla tecnologia come a qualcosa da regolare, non da abitare. Non è mai un problema di tecnologia, che comunque non è mai neutra. ma di chi la detiene.
La diplomazia parla di equilibri, l’accademia di scenari. Ma nessuna delle due si misura davvero con la questione centrale: chi progetta le infrastrutture cognitive del presente? Chi scrive la grammatica del reale? Chi decide quale intelligenza è considerata degna, e quale va disinnescata? Non ci serve un’intelligenza più potente, ma più capace di relazione. Non mappe postume, ma geografie viventi. Non conoscenze separate, ma forme di alleanza.
Don Bosco questo lo aveva capito. Per questo, nel mezzo della modernizzazione liberale, scelse di non osservare, ma di intervenire. Mise su torchi, formò tipografi, costruì librerie. Non per nostalgia del passato, ma per costruire un’altra modernità. E oggi farebbe la stessa cosa. Ma con le AI.
La domanda non è se intervenire. La domanda è da che parte delle rotative vogliamo stare.