Il sottosuolo conta più del cloud

The earth vs the cloud. Oltre la corsa alle miniere: senza un patto tra territori, tecniche e ambienti, la transizione diventa solo l’ultima forma di colonialismo.

Nel cuore delle Alpi, in Trentino, come in Sardegna o nel nord della Svezia, partono i carotaggi, si rispolverano le concessioni, si riattivano i codici minerari in nome della nuova corsa alla sovranità, e intanto la Commissione Europea si rifugia nella retorica della supply chain resiliente, dimenticando che scavare non basta, se non si è disposti a ridefinire il senso stesso del progetto industriale europeo; l’illusione di sostituire la dipendenza dalla Cina con un’autarchia estrattiva interna è una tentazione miope, e insieme pericolosa, perché spaccia per visione strategica un’operazione di retroguardia, una scorciatoia ecologicamente insostenibile, economicamente lenta e politicamente regressiva. L’India, almeno, ha avuto il coraggio di dichiarare il problema: nel momento in cui la Cina, nell’aprile 2025, ha stretto i vincoli all’export dei magneti permanenti contenenti terre rare, imponendo licenze, dossier dettagliati e condizioni diplomatiche arbitrarie,il più grande costruttore del paese, Maruti Suzuki, ha dovuto tagliare del 66% la produzione prevista della sua prima auto elettrica, la e‑Vitara, che avrebbe dovuto simboleggiare il passaggio a un’autonomia produttiva nel comparto BEV e che invece si è scontrata con la realtà brutale della dipendenza dai materiali strategici, in particolare il neodimio, il disprosio, il praseodimio, elementi senza i quali non si costruiscono né motori elettrici né servosterzi, né algoritmi per l’edge AI né attuatori per la missilistica avanzata, né data center di nuova generazione, né protesi intelligenti, né radar multifrequenza: l’India, che nel 2025 ha importato 200 milioni di dollari in magneti REE, per l’85% provenienti dalla Cina, si è trovata di fronte a una crisi di sistema, e ha risposto lanciando un programma nazionale di esplorazione geologica, la National Critical Mineral Mission, con 1.200 progetti pianificati da qui al 2030, ma con la consapevolezza che serviranno anni prima che questo sforzo produca risultati tangibili, e nel frattempo si gioca tutto sulla capacità di stringere accordi, negoziare forniture, costruire alleanze materiali, anche laddove non esiste affinità geopolitica.

L’Europa, invece, pur essendo ancora più dipendente, il 98% delle terre rare raffinate usate nell’UE proviene dalla Cina, resta bloccata tra retorica dell’autonomia strategica e pratiche industriali deboli, incapace di riconoscere che scavare in casa, oltre a essere ambientalmente devastante, è tecnologicamente arretrato e socialmente ingestibile: perché l’estrazione delle terre rare è un processo chimico distruttivo, richiede impianti complessi, genera scarti radioattivi, impatta sulle falde e sul paesaggio, e perché è semplicemente incompatibile con l’ecologia come valore costituzionale, a meno che non si avvii una ricerca radicale su metodi estrattivi a basso impatto, recupero biotecnologico, idrometallurgia sostenibile, economia circolare dei materiali, separazione biologica e raffinazione decentralizzata, tutte vie oggi sperimentali e incerte, che richiedono decenni di investimento e visione. La risposta, allora, non può essere quella della “sovranità” come chiusura, ma deve passare per il recupero della biodiversità della tecnica, che significa non affidare la transizione a un solo paradigma produttivo, ma esplorare soluzioni multiple, tecnologie leggere, motori magnetless, materiali locali, infrastrutture a basso contenuto energetico e alta riparabilità; per la biodiversità della noosfera, che vuol dire ripensare non solo le tecnologie, ma i saperi, le logiche cognitive, le forme di conoscenza, accettando che l’intelligenza tecnica non è unitaria, non è solo siliconica, non è tutta brevettabile o esportabile; e, soprattutto, per l’interdipendenza consapevole, che non è il contrario della sovranità, ma la sua evoluzione necessaria in un mondo fragile, dove ciò che serve non è dominare le risorse ma contrattarne l’uso, con giustizia, reciprocità e lungimiranza.

Per questo non è un tabù, ma una necessità, tornare a parlare anche con la Russia, con l’Africa estrattiva, con il Sudamerica ricco di litio, con l’Indonesia e le sue miniere di nichel, fuori dai moralismi selettivi e dalle geometrie ideologiche, perché in un mondo dove il sottosuolo conta più del cloud, le relazioni contano più degli standard, e chi non ha accesso ai materiali è escluso dalla partita prima ancora che si cominci a giocare. Questa riconnessione materiale non può ridursi a una nuova ricolonizzazione del mondo attraverso l’industria della transizione, non può diventare un’altra rete di forniture asimmetriche dove i paesi che detengono le risorse vengono coinvolti solo come fornitori di materia grezza da estrarre a basso costo e ad alto impatto; al contrario, deve essere l’occasione per costruire un metodo condiviso, un’intelligenza del suolo e del sottosuolo che sia davvero cooperativa, dove le conoscenze, le tecnologie, le decisioni siano distribuite e dove la ricchezza prodotta non venga nuovamente concentrata al centro ma redistribuita lungo l’intera filiera, in termini di potere, competenza e redditività. E in questa riconfigurazione, l’ambiente non può più essere trattato come vincolo esterno o spazio neutro da gestire, ma deve entrare pienamente nel processo decisionale come soggetto attivo, interlocutore primario, coautore di ogni scelta: non ci può essere alcuna alleanza rigenerativa che non passi per un patto diretto con gli ecosistemi coinvolti, nessuna geopolitica dei materiali che non riconosca alla terra una volontà propria, una voce che pesa, che detta condizioni, che esige rispetto.

L’Europa può ancora fare la differenza, ma solo se smette di inseguire l’autonomia come chiusura e inizia a costruirla come alleanza: non miniere ovunque, ma accordi ovunque; non indipendenza mineraria, ma dipendenza rigenerativa; non rincorsa all’estrazione, ma redistribuzione dell’intelligenza tecnica e delle risorse geologiche, in nome di un patto materiale globale che non sia predatorio ma solidale, non un nuovo colonialismo delle terre rare, ma un’alleanza tra territori, tecniche, comunità e ambienti, per abitare insieme la scarsità.

Perché il futuro non si costruisce scavando sotto casa o nei giardini altrui, ma ricucendo il mondo. E ricordando che il sottosuolo non è di nessuno.

Immagine: Miniera Terre Rare, Brasile