L’occhio digitale dei Comuni: tra sicurezza e sorveglianza, chi guida il burattino?

Ci siamo svegliati in un mondo in cui ogni angolo del paese – piazze, parchi, incroci, biblioteche, scuole – è diventato il teatro di una veglia ininterrotta. Occhi digitali appesi ai pali, alle grondaie, ai semafori, silenziosi e onniveggenti. Le chiamiamo “telecamere di sicurezza”, ma il loro sguardo non è mai neutro: registra, archivia, collega. E soprattutto: prevede.
A installarle sono i Comuni, spesso con il plauso unanime di cittadini spaventati, amministratori compiaciuti e forze dell’ordine ansiose di “strumenti operativi”. Ma dietro la retorica della sicurezza si muove un’altra logica: quella del capitalismo della sorveglianza, che – come ci insegna Shoshana Zuboff – trasforma ogni esperienza umana in materia prima da estrarre e classificare.
La telecamera comunale non è più solo un deterrente: è un sensore. E ogni sensore è un’antenna tesa verso la nostra vita privata, in cerca di pattern comportamentali da cui ricavare qualcosa. Ma per chi?
“È per la vostra sicurezza”, dicono. Ma il linguaggio, si sa, è il primo luogo della manipolazione. Dietro il lemma rassicurante “telecamera pubblica” si nasconde un atto di espropriazione epistemica: chi vede, controlla; chi controlla, plasma. E chi plasma – non illudiamoci – non è quasi mai un sindaco di cui ci fidiamo.
Le telecamere urbane non sono più strumenti passivi. Integrate con software di riconoscimento facciale, algoritmi di analisi predittiva e sistemi di intelligenza artificiale, si comportano ormai come agenti. Non registrano per memoria: profilano per anticipazione. Ogni nostro gesto – una sosta troppo lunga, un’andatura nervosa, un abbraccio fuori contesto – diventa un dato comportamentale, una scheggia di futuro masticata da un sistema.
Ecco il paradosso: la sorveglianza pubblica diventa cavallo di Troia della logica privata. I Comuni comprano tecnologia per proteggere la cittadinanza, ma la tecnologia appartiene a fornitori che non proteggono, bensì predano. Ogni contratto di fornitura è un tacito patto faustiano: si ottiene ordine visibile in cambio di un disordine invisibile – quello generato da un’architettura computazionale che accumula, connette, inferisce.
Zuboff lo dice senza mezzi termini: “non siete il cliente, siete la materia prima”. Le nostre città si riempiono di occhi, ma non sappiamo chi li chiude la notte, né chi li alimenta il giorno. Le immagini raccolte possono finire in server remoti, le metriche elaborate da software sviluppati all’estero, i pattern ceduti a terzi non identificabili, i dati intercettati. Il Comune paga l’impianto. Qualcun altro incassa il futuro.
In nome della sicurezza, stiamo normalizzando l’eccezione: la possibilità che ogni spazio pubblico sia anche spazio di estrazione. Ed è qui che il confine tra sicurezza e controllo si fa labile, e l’occhio che ci promette protezione comincia a comportarsi come un coltello sotto la pelle: non si vede, ma si sente.
L’installazione di una telecamera è un atto politico, non tecnico. E come ogni atto politico, dovrebbe essere discusso, motivato, contestato. Invece avviene in silenzio. Nascosto dietro la burocrazia delle delibere, il linguaggio anestetizzato delle determine dirigenziali, il lessico opaco delle “smart city”.
Così, metro dopo metro, palo dopo palo, nasce una nuova geografia del controllo. Una geografia che non è scelta dalla cittadinanza, ma imposta. Si invoca il bisogno collettivo di sicurezza, e si ottiene un controllo opaco, non negoziabile, non reversibile. “Partecipazione” è la parola che scompare. “Asimmetria” quella che resta.
L’espropriazione dei diritti di sapere, di scegliere, di dissentire. La sorveglianza urbana, se non gestita in modo radicalmente democratico, diventa il campo operativo di questa espropriazione. Nessuno ti chiede se vuoi essere filmato ogni volta che attraversi il parco. Nessuno ti spiega cosa verrà fatto del tuo volto registrato mentre attendi l’autobus. Nessuno ti informa che la tua posizione, unita a cento altre, può diventare un pattern per chi “vuole sapere dove si muove la paura”.
Il punto è questo: una comunità informata è una comunità che delibera. Una comunità ignara è una colonia cognitiva. E in Italia – nel silenzio diffuso – si moltiplicano le seconde. Il cittadino non sa. E quando non sa, non può decidere. Quando non può decidere, smette di essere cittadino.
Per questo, ogni sistema di sorveglianza deve nascere da un processo di consultazione, essere accompagnato da strumenti di verifica, e sottoposto a revisioni pubbliche. Le mappe delle telecamere devono essere accessibili, i software trasparenti, le metriche dichiarate, gli accessi tracciati. Non basta proteggere i dati: bisogna proteggere le persone dai sistemi che li generano.
Una comunità che accetta di essere guardata senza sapere da chi, come, perché e con quali fini, è una comunità che ha smesso di guardarsi dentro. Ha abdicato alla democrazia in nome dell’efficienza.
C’è qualcosa di profondamente inquietante nel modo in cui le nostre città si trasformano: non più luoghi della relazione, della sorpresa, della devianza creativa, ma spazi regolati, computati, previsti. Le piazze non sono più agorà. Sono dashboard. Le strade, corridoi di tracciamento. Ogni corpo che si muove, ogni volto che compare, ogni gesto che devia dalla norma viene rilevato, storicizzato, valutato.
È un nuovo potere che non reprime, ma orienta. Che non punisce, ma prevede. Un potere che trasforma l’idea stessa di società: non più un insieme di soggetti dotati di volontà, ma un sistema adattivo, un alveare governato da algoritmi, dove ciascuno si muove secondo traiettorie ottimizzate. Niente attriti, niente sorprese. L’ordine diventa il fine supremo. Ma un ordine senza libertà è solo una prigione ben illuminata.
La città che si sorveglia non si governa più: si calibra. Il sindaco non è più garante della coesione sociale, ma manager di flussi. Il cittadino non è più portatore di diritti, ma unità mobile in uno spazio sensorizzato. La democrazia si scioglie nell’efficienza, la fiducia si dissolve nell’analisi predittiva.
È questo che accade quando accettiamo che i comportamenti siano “modellati” per garantire la sicurezza. Si rinuncia alla libertà per ottenere prevedibilità. Ma chi decide quale comportamento è desiderabile? Chi codifica la “normalità”? E soprattutto: chi beneficia dell’ordine che si costruisce?
Il rischio non è teorico. È pratico, tangibile. È nella funzione “zona rossa” che certi sistemi di videosorveglianza attivano in automatico quando riconoscono “comportamenti sospetti”. È nei software predittivi che mappano il rischio di microcriminalità in base a “presenza prolungata” o “assembramento non autorizzato”. È nei volti etichettati, nei profili costruiti, nei divieti suggeriti. È nell’alveare che prende forma sotto i nostri occhi, mentre ancora crediamo di vivere in una piazza.
Una città è viva quando è imprevedibile. Una città sicura non è una città sterile. Se non capiamo questo, ci troveremo a vivere in ambienti che somigliano più a laboratori comportamentali che a contesti democratici.
Non siamo condannati all’alveare. Non siamo predestinati a vivere dentro una rete di occhi digitali che ci analizzano come cavie in un laboratorio algoritmico. Ma uscire da questa traiettoria richiede qualcosa che oggi manca: consapevolezza, competenza, e soprattutto coraggio politico.
La prima domanda è semplice, ma radicale: chi ha accesso ai dati raccolti? La seconda è ancora più scomoda: a quale scopo vengono usati?
Finché le risposte resteranno confinate nei server dei fornitori, nelle policy scritte in legalese e nei silenzi dei dirigenti comunali, la sorveglianza urbana resterà un’operazione coloniale: un’appropriazione di comportamenti a fini di mercato. Per questo servono strumenti radicali.
Serve una “trasparenza computazionale”: ogni cittadino deve poter sapere cosa viene registrato, da quale dispositivo, per quanto tempo, con quali criteri e a beneficio di chi.
Serve una “governance pubblica dei dati”: consorzi civici, organismi indipendenti, audizioni pubbliche, strumenti deliberativi.
Serve un “diritto alla non sorveglianza”: spazi liberi da occhi elettronici, in cui sia possibile esistere senza lasciare traccia, pensare senza essere processati, deviare senza essere normalizzati.
La sicurezza è una cura collettiva. Le città non si rendono più vivibili riempiendole di telecamere, ma coltivando reti umane, servizi di prossimità, educazione civica, fiducia sociale. La sicurezza si costruisce prima del crimine, non dopo. E non si installa: si genera.
La battaglia per la libertà e la democrazia non si giocherà più solo nei parlamenti, ma negli archivi dei dati. Nei log di accesso. Nei protocolli di sorveglianza. Nei dettagli tecnici che oggi solo pochi comprendono, ma che definiscono i limiti invisibili della nostra esistenza.
La domanda non è più “chi ci guarda?”, ma “con quale diritto, verso quale fine e con quale giustificazione morale?”
Un futuro digitale è ancora possibile, ma solo se sapremo renderlo abitabile. E un futuro è abitabile solo quando chi lo abita ha il potere di riscriverne le regole.