Sull’isola di Roatán, una lunga striscia di terra caraibica a nord dell’Honduras, la storia di Próspera prende forma a partire dal 2010, quando il Paese esce ammaccato dal colpo di Stato del 2009 e tenta di ridisegnare il proprio modello di sviluppo in un clima politico instabile e segnato da istituzioni deboli. In questo contesto, il governo approva una legge che istituisce le Zonas de Empleo y Desarrollo Económico (ZEDE), spazi territoriali sottratti alla giurisdizione ordinaria e predisposti per attrarre investimenti esteri attraverso un regime autonomo di regolazione, tassazione e governance. Il principio dichiarato è quello della modernizzazione economica; il risultato concreto è l’apertura di porzioni di territorio nazionale alla gestione di soggetti privati con poteri di natura quasi statuale.
L’idea prende ispirazione dalle teorie delle “charter cities”, elaborate dall’economista Paul Romer, secondo cui nuove città create da zero e dotate di sistemi giuridici “importati” da Paesi più stabili avrebbero potuto accelerare lo sviluppo. Romer partecipa inizialmente al progetto, poi si ritira rapidamente quando si accorge che la controparte honduregna intende procedere secondo lui senza trasparenza. La versione finale delle ZEDE si distanzia infatti dall’idea originaria e assume una forma molto più radicale: non più un esperimento di governance responsabile, ma un dispositivo che permette a investitori privati di amministrare territorio, giustizia e urbanistica in modo pressoché indipendente dallo Stato centrale.
A partire dal 2016, questa architettura giuridica attira l’interesse di un gruppo di imprenditori legati al mondo tech e al libertarianismo nordamericano. Nasce così Honduras Próspera Inc., società registrata nel Delaware, fondata da Erick Brimen e sostenuta, direttamente o indirettamente, da figure e fondi vicini a Peter Thiel, Marc Andreessen e una costellazione di altri fondi della Silicon Valley che credono all’idea di micro‑stati privati come alternativa alla governance democratica. Ottengono l’autorizzazione a sviluppare un progetto ZEDE sull’isola di Roatán, territorio abitato da comunità locali afro-caraibiche.
Il progetto prende forma nel 2020 con la formalizzazione di Próspera ZEDE, che si presenta al mondo come una piattaforma territoriale per innovazione estrema: tasse all’1%, procedure semplificate per imprese e costruzioni, arbitrati privati per le controversie e la possibilità per residenti e aziende di adottare normative estere come se fossero pacchetti software e termini d’uso. Tutto questo viene accompagnato da una narrazione fortemente orientata alla conquista di un mercato globale: biotech avanzate, criptovalute, governance digitale, investimenti immobiliari e sperimentazioni al limite della legalità internazionale.
La popolazione locale denuncia fin da subito un rischio di espropriazione, una crescente perdita di controllo sul territorio e la sensazione che la nuova governance non abbia alcun interesse a integrare le comunità storiche di Roatán. L’arrivo dei nuovi coloni imprenditoriali accentua infatti fratture già presenti tra le comunità indigene e afro‑caraibiche: una parte, legata alla difesa culturale e territoriale, percepisce Próspera come una minaccia esistenziale; un’altra, più vicina al turismo e al mercato immobiliare, spera di ricavarne benefici economici immediati. Ne nasce un conflitto interno che non esplode in violenza, ma divide famiglie, associazioni e villaggi e rende visibile quella dinamica antica in cui l’arrivo dei nuovi coloni non solo altera l’equilibrio politico, ma costringe gli indigeni a misurarsi tra loro, trasformando la difesa del territorio in una lotta intestina che è già, in sé, un effetto del dispositivo colonizzante.
Quando nel 2022 il governo honduregno, guidato da Xiomara Castro, abroga la legge che autorizzava le ZEDE, Próspera risponde con una causa internazionale da 10 miliardi di dollari, cifra pari a circa il 40% del PIL nazionale, sostenendo che l’Honduras avrebbe violato obblighi contrattuali nei confronti degli investitori. È il momento in cui diventa chiaro che Próspera non è solo un progetto di sviluppo, ma un nuovo tipo di attore geopolitico: una corporation che rivendica diritti analoghi a quelli di uno Stato.
Oggi Próspera resta sospesa tra ambizione visionaria, conflitto giuridico e opposizione sociale e continua a rappresentare uno dei casi più estremi di sperimentazione politica privata su suolo fisico. Per capire cosa rappresenta davvero Próspera bisogna abbandonare la superficie tecnica del progetto e guardare alla trasformazione politica che esso incarna: una trasformazione che non riguarda solo l’Honduras, ma un modo nuovo e per molti versi inquietante di interpretare il potere. Il cuore del dispositivo non è la fiscalità leggera, né la promessa di innovazione, ma l’idea che la sovranità possa essere spacchettata in componenti, resa modulare, ricomposta in un regime privato dove la legittimazione non proviene dal popolo ma dal capitale e dove le regole non sono vincolate a un processo deliberativo, ma al modello di business di una società che opera come infrastruttura politica oltre che finanziaria.
A Próspera la legge non si trasmette come tradizione interpretativa o come esito di una storia collettiva, ma come contratto d’uso, scritto da un gruppo di investitori che si muove tra Silicon Valley, network crypto-libertari e fondi di venture capital associati. L’adesione al contratto non è un atto politico, ma un atto commerciale; la permanenza non è un diritto, ma una funzione; e il territorio non è un bene comune, ma l’infrastruttura fisica mediante cui una visione del mondo si installa e si esegue.
In questo contesto, la città-startup funziona come una sandbox geopolitica, dove gli esperimenti che altrove richiederebbero dibattiti pubblici, verifiche etiche e processi democratici vengono trattati come questioni amministrative: editing genetico, protocolli di longevità, modelli di governance algoritmica, giustizia privatizzata, criptovalute in regime quasi extraterritoriale, importazione di normative come se fossero estensioni e upgrade di un software. La logica è quella dell’accelerazione e poi trattare il rischio come opportunità purché gestibile attraverso un contratto e un assicurazione monetaria.
Così, nel perimetro di Próspera, il territorio viene separato dalla popolazione che lo abita e riconfigurato come spazio operativo per un’élite internazionale di imprenditori tech, biohacker, sviluppatori e professionisti globali che condividono l’idea che la politica sia un rumore di fondo e che la gestione del mondo possa essere trasferita a soggetti privati purché efficienti.
In questa architettura, lo Stato viene ripensato come una piattaforma da cui estrarre ciò che serve, sicurezza, riconoscimento internazionale, stabilità giuridica, liberandosi del resto, mentre la cittadinanza si trasforma in un abbonamento che abilita accesso, protezione, arbitrato e servizi, revocabile o modificabile come qualunque licenza d’uso.
In questo quadro l’algoritmo non è una metafora, è la nuova fonte normativa. Decide tempi, procedure, priorità, accessi, compatibilità; definisce il confine tra ciò che esiste e ciò che non è autorizzato a esistere; governa i rapporti tra individui come se fossero transazioni. E mentre la legge tradizionale accetta la possibilità del conflitto e riconosce alla comunità un ruolo nella sua evoluzione, l’algoritmo non dialoga: seleziona, filtra, ordina e sanziona. È un potere che non deve essere giustificato perché si presenta come tecnico, neutrale, inevitabile e che proprio per questo diventa più difficile da contestare.
E nella sostituzione silenziosa si compie la parte più radicale del progetto: il passaggio dalla politica come campo di mediazione alla politica come infrastruttura operativa. Nessuna assemblea, nessuna dialettica, nessuna voce collettiva; solo un sistema che esegue e aggiorna le proprie clausole come un dispositivo di automazione del potere. È il punto in cui la città diventa veramente post-politica, non perché la politica sia stata abolita, ma perché è stata inglobata nella logica di un algoritmo che governa senza essere discusso e che non riconosce comunità ma solo utenti.
Dietro questa apparente razionalità c’è un’altra trasformazione: la creazione di una frattura tra chi può partecipare al gioco e chi deve subirne gli esiti. Gli expat e gli investitori vivono in un regime di autonomia garantita, mentre le comunità locali di Roatán si ritrovano estromesse dal processo decisionale, obbligate a difendere in tribunale terre e diritti che erano parte della loro vita quotidiana. Si produce così un doppio paesaggio: quello interno, che funziona come un ecosistema autosufficiente costruito per accelerare, e quello esterno, che subisce i costi sociali, culturali ed ecologici di questo esperimento e mostra con chiarezza come la frattura tra chi decide e chi subisce finisca per trasformare il territorio in un dispositivo operativo che non tiene conto delle comunità che lo abitano, riducendole a variabili negoziali anziché riconoscerle come soggetti politici.
Próspera non è un incidente isolato, ma una miniatura del possibile: un luogo in cui la sovranità diventa merce, la cittadinanza una condizione contrattuale e il futuro politico un campo di battaglia tra Stati che cercano di mantenere il controllo e aziende globali che rivendicano il diritto di governare porzioni di mondo come se fossero data center o campus aziendali. Il fatto che una corporation abbia chiesto a un tribunale internazionale 10 miliardi di dollari per il presunto diritto di continuare a esercitare funzioni che appartengono, per definizione, alla sfera della sovranità democratica, non è un dettaglio ma il segnale concreto di un nuovo equilibrio del potere, in cui alcune aziende globali non si limitano più a influenzare le decisioni pubbliche, ma le contendono sullo stesso piano, utilizzando gli strumenti del diritto commerciale per affermare una pretesa di legittimità politica. L’esperimento geo-politico-istituzionale così rivela la sua natura più profonda: non la creazione di un ambiente favorevole all’innovazione, ma l’installazione di un paradigma in cui il potere non deriva dalla rappresentanza, ma dalla capacità di modulare regole, territori e vite come se fossero componenti di un’infrastruttura privata.
Próspera non è soltanto una città-startup; è un prototipo di governance post-statale, un esempio tangibile di ciò che può accadere quando la legittimazione politica viene trasferita a soggetti che non rispondono a un bene comune ma a un portafoglio di investimenti e quando la promessa di efficienza diventa il grimaldello attraverso cui disattivare responsabilità, tutele e memoria collettiva. Proprio per questo la questione non è se progetti simili siano inevitabilmente pericolosi, ma quale idea di futuro incoraggino e quale rapporto tra comunità, territorio e potere decidiamo di accettare.
Se la ricerca di forme alternative allo Stato è legittima, necessaria e persino urgente nell’epoca in cui le istituzioni tradizionali faticano a reggere la complessità del mondo contemporaneo, allora il vero discrimine non sta nell’innovare o nel conservare, ma nel decidere se il futuro debba essere costruito come un’estensione di infrastrutture private o come un processo collettivo che riconosce valore alla partecipazione, alla giustizia e alla possibilità di immaginare insieme ciò che ancora non esiste. È qui che Próspera diventa un caso esemplare: non perché offra una soluzione, ma perché costringe a guardare senza sconti il tipo di mondo che emerge quando la tecnologia non si limita a cambiare gli strumenti del potere, ma il suo principio stesso di legittimazione.
Immagine: Abundantia di Peter Paul Rubens (ca. 1630). National Museum of Western Art di Tokyo.