La tecnologia senza Prometeo.

In Giappone, e in molte comunità dell’Asia,  il senso della tecnologia si sviluppa lungo una traiettoria che non ha nulla a che vedere con la rottura prometeica che ha segnato la storia della tecnica in Europa. L’idea che il progresso tecnologico sia una forma di liberazione dalla natura, una sfida al limite, una conquista ottenuta attraverso la violazione di un ordine cosmico, è estranea a una cultura che ha costruito il proprio rapporto con il mondo sull’armonia tra gli elementi, sulla continuità tra umano, oggetto e ambiente, e su un’etica della relazione che precede il soggetto.

L’intelligenza artificiale non è progettata per sostituire, disintermediare, scalare o ottimizzare in astratto, ma per inserirsi in un sistema relazionale preesistente che ne condiziona finalità e forma. L’automazione non mira all’emancipazione dal lavoro, ma alla facilitazione dei gesti quotidiani, alla cura, all’assistenza, all’inclusione di soggetti fragili. Il robot non è l’archetipo della potenza tecnica, ma un’interfaccia relazionale che si adatta al contesto, modula la propria presenza, entra in relazione senza imporsi.

La nozione giapponese di aidagara, che definisce la “relazione tra” come condizione ontologica dell’esistenza, è centrale per comprendere questa visione. Non esiste un individuo separato che si relaziona con gli altri; esiste una rete di rapporti che costituisce gli individui stessi. Così anche la tecnologia è parte del tessuto relazionale; l’intelligenza artificiale non è una mente separata, non è un’entità esterna, ma una forma che assume senso solo in quanto parte di una configurazione dinamica di rapporti.

Yuk Hui, nel suo geniale lavoro sulla cosmotecnica, leggete il libro di Nero Editore, ha teorizzato la necessità di pensare la tecnica non come sapere universale, ma come espressione situata di un rapporto tra mondo, pensiero e azione. La modernità occidentale ha costruito un regime tecnico fondato sulla separazione tra soggetto e oggetto, sulla razionalizzazione e sull’universalizzazione dei mezzi. La cosmotecnica, al contrario, riconosce che ogni cultura ha il proprio modo di articolare la tecnica in relazione al proprio cosmo, cioè alla propria concezione dell’ordine del mondo.

Nel caso giapponese, la tecnologia non viene concepita come forza di trasformazione totale, ma come elemento che si integra a un ordine esistente. Certo anche il Giappone ha conosciuto fasi di modernizzazione tecnologica estremamente aggressive, difficilmente riconducibili a una logica puramente armonica o relazionale. L’industrializzazione forzata del periodo Meiji nel fine ottocento, con il motto “Paese ricco, esercito forte” così come il boom economico postbellico, sono esempi storici in cui la tecnologia è stata mobilitata come strumento di potere, crescita e competizione, in una dinamica ben più vicina a quella occidentale che a una continuità culturale immutata. E bisogna anche riconoscere che il Giappone ha uno dei più alti tassi di automazione industriale al mondo, con un uso massiccio di robot in ambito produttivo. Ma la coesistenza di questi elementi comunque non invalida la visione cosmotecnica, semmai richiede di articolarla in modo non ingenuo, riconoscendo le contraddizioni interne di un sistema che, pur operando in un orizzonte relazionale, non è esente da dinamiche di sfruttamento e alienazione.  È una grande ricerca da fare e Massimo Cerofolini ci sta provando; ha iniziato in queste settimane proprio su questi temi un nuovo podcast RAI, ascoltatelo perchè Cerofolini è uno di quelli bravi davvero.

La relazione tra tecnica e cosmo, si diceva, non è fissa, ma è attraversata anche in Asia da tensioni storiche e politiche. La cosmotecnica non prova a disarticolare il sociale, ma a ricomporlo con l’automazione. L’innovazione non è uno shock, ma un passaggio graduale. L’AI entra nel sistema di cura senza pretendere di sostituirsi, ma per potenziarne le possibilità. I robot progettati per interagire con gli anziani, ad esempio, non incarnano l’idea occidentale di efficienza tecnica, ma una forma di prossimità rituale, una presenza rispettosa che si modella sull’interlocutore e ne riconosce la vulnerabilità come valore.

Questo approccio non è un dato culturale nel senso superficiale del termine. È una diversa epistemologia, una diversa concezione del rapporto tra sapere, tecnologia e vita. Mentre in Occidente la tecnica nasce da una colpa fondatrice, il furto del fuoco e la conseguente punizione, in molte culture dell’Asia la tecnica emerge come parte dell’ordine del mondo, come continuità e non come rottura. La macchina, in questo quadro, non è il simbolo di un superamento, ma una prosecuzione; non è emancipazione dal corpo, ma estensione del corpo stesso.

Nel mondo contemporaneo, segnato da una crescente egemonia dell’infrastruttura AI occidentale, questa differenza assume un valore politico. La possibilità di pensare e progettare intelligenze artificiali che non riproducano l’universalismo astratto dei modelli dominanti, ma che si radichino in altri mondi, altre forme di vita, altri modi di pensare la tecnica. Credo che questa sia la sfida centrale del nostro tempo.

Non c’è bisogno di una difesa delle “tradizioni” contro la modernità, ma un nuovo universalismo plurale che accetti l’idea che non esiste una sola tecnica, una sola intelligenza, una sola razionalità computazionale. Il concetto è quello di biodiversità cognitiva, tecnodiversità e noodiversità. Questa pluralità non è soltanto una risorsa culturale tra popoli, ma anche una condizione geopolitica necessaria per evitare che l’intelligenza artificiale diventi un’arma di grandi conflitti economici e militari tra le comunità. Solo attraverso una tecnodiversità effettiva è possibile costruire una coabitazione tra umanità e AI, fondata non sul dominio ma sul riconoscimento reciproco tra mondi, linguaggi e sistemi di senso differenti.

Non è sufficiente certo assumere il caso giapponese come modello unico o esemplare: occorre costruire nuovi ecosistemi tecnici e cognitivi capaci di integrare prospettive diverse, immaginare soluzioni situate e valorizzare la pluralità delle relazioni tra umani, ambienti e intelligenze artificiali. E in questo processo, la comparazione tra culture, istituzioni e visioni della tecnica diventa non un esercizio teorico, ma una condizione di sopravvivenza geopolitica e simbolica. Il senso per me non è come rendere umana l’intelligenza artificiale, ma come costruire tecnologie che non distruggano le condizioni di possibilità dell’umano.

Immagine: Why Not Hand Over a “Shelter” to Hermit Crabs? (2009). Aki Inomata usa scansione 3‑D e stampa 3D per creare gusci artificiali decorati per granchi ermitàni, interrogando le categorie di produzione, natura, artificialità.