Oltre i beni comuni

Da anni il lessico dei beni comuni circola con successo nei movimenti, nei dibattiti pubblici, nelle retoriche partecipative. È stato utile: ha permesso di nominare un’opposizione alla privatizzazione dei fondamentali, acqua, parchi, conoscenza, dati, evocando un “noi” generico e inclusivo, utile nella fase simbolica delle mobilitazioni. Ma oggi quello stesso lessico funziona più come copertura emotiva che come strumento operativo. Il comune, inteso come di tutti, scivola troppo facilmente verso il di nessuno: non dice chi decide, chi custodisce, chi contratta. È un concetto che aggrega consensi ma neutralizza la politica. Il rischio è quello di una fruizione indistinta, dove tutto è aperto ma nessuno ha voce. Dove il patrimonio si dissolve nella retorica dell’accesso, mentre i poteri reali,  infrastrutture, capacità di calcolo, capitali, governance, restano saldamente nelle mani di pochi.

Esiste però un’altra tradizione, concreta, giuridicamente definita, capace di attraversare i secoli: la proprietà collettiva. Non un’utopia egualitaria, ma una forma storica di titolarità che distingue tra chi partecipa e chi resta fuori, tra chi ha diritti e chi ha doveri, tra chi è legittimato a decidere e chi deve negoziare. Non dello Stato, non del privato, ma di una comunità definita, con organi deliberativi, statuti, regole d’uso, sanzioni, diritti d’esclusione e obblighi di manutenzione. È la forma giuridica dei domini collettivi, delle terre civiche, dei consorzi agrari, dei pascoli autogovernati, dei boschi in uso consuetudinario. È l’autogoverno che si fa forma, che si dà un confine, che si assume la fatica della responsabilità. Non è nostalgia, ma ingegneria istituzionale, non è romanticismo, ma architettura del potere condiviso. Certo imperfetta ma alla ricerca di un metodo che la migliori.

Oggi questa forma può e deve essere traslata sul terreno del digitale. Perché l’attuale modello degli open data, presentato come pratica democratica,  si è rivelato spesso un canale di estrazione silenziosa. L’apertura generalizzata dei dati favorisce chi possiede infrastrutture di calcolo e modelli predittivi, cioè le grandi piattaforme e alcune grandi pubbliche amministrazioni. Le comunità locali, i territori, i piccoli enti non hanno strumenti né tempo né risorse per trarne benefici reali, anche se ha permesso di sviluppare. a pochi e piccoli, strumenti  che usiamo quotidianamente. Così, i dati aperti si trasformano in materia prima gratuita per l’industria del machine learning, mentre i luoghi che quei dati producono restano esclusi dalla catena del valore.

Parlare di proprietà collettiva dei dati significa ribaltare questo paradigma. Significa che una comunità,  definita, legittimata, organizzata,  possa stabilire condizioni d’uso, regole di accesso, benefici condivisi. Non più “open by default”, ma negoziato by design. Non apertura indiscriminata, ma condivisione condizionata a una titolarità esplicita. È un cambio di postura: da fruitori passivi a soggetti capaci di rivendicare sovranità informativa.

Esperienze reali esistono. I Data Trusts nel Regno Unito, che affidano la gestione dei dati a enti fiduciari con mandato collettivo. La strategia dei dati cittadini di Barcellona, dove la governance dell’informazione è integrata nella pianificazione urbana. Le pratiche di sovranità digitale indigena dei Māori in Nuova Zelanda. E i tentativi europei di federazione delle infrastrutture come GAIA‑X. Sono esperimenti ancora fragili, certo, esposti alla cattura da parte dei grandi attori. Ma tracciano una traiettoria: non più “bene comune” astratto, ma proprietà collettiva come strumento di negoziazione concreta.

Rivendicare proprietà collettive non significa solo regolare accessi, ma definire forme di convivenza. Dalla gestione di un acquedotto a quella di un dataset climatico, dalla cura di un bosco alla modellazione di un gemello digitale di valle, ciò che conta è la capacità di stabilire regole situate, stabili, riconosciute. È l’ecologia dei diritti che si fa politica delle istituzioni. È la soglia che distingue tra piattaforme che usano le comunità come fornitori inconsapevoli di dati e comunità che si organizzano per non farsi espropriare.

Il passaggio successivo è quello che porta dall’idea dei dati come dominio collettivo a un modello di intelligenza artificiale territoriale, costruita dentro quel dominio. Un’intelligenza artificiale che si nutre di dati generati dalla comunità stessa, sensibili alla prossimità, alle specificità ambientali, culturali, economiche. Dati che non hanno solo valore quantitativo, ma anche qualità relazionale, contestuale, affettiva. A differenza delle AI centralizzate delle big tech, che operano su scala globale e con logiche astratte, un’AI territoriale si radica nei bisogni e nelle conoscenze locali, riconosce pluralità di sensibilità e di visione, ed è soggetta a forme di controllo e deliberazione collettiva.

Tuttavia, perché questo modello possa funzionare, occorre affrontare una serie di questioni ancora aperte. Come si coordinano tra loro proprietà collettive differenti, con statuti e regole disomogenei? Cosa accade quando i dati attraversano confini giuridici, linguistici o culturali? Quali sono i meccanismi di risoluzione dei conflitti d’uso, di interoperabilità tra piattaforme, di riconoscimento reciproco tra soggetti collettivi? Una politica delle proprietà collettive non può limitarsi a proclamare la titolarità: deve costruire un metodo, un’architettura procedurale che consenta a queste comunità di coordinarsi, contrattare, difendersi. La ricerca di un nuovo metodo è parte integrante della trasformazione che qui si propone. Non basta nominare il collettivo: bisogna dargli voce, strumenti, interoperabilità, mediazione, capacità di rappresentanza e di azione. Nessuna comunità è data: va costruita. Nessuna istituzione è neutra: va continuamente rinegoziata. Nessun ordine è inevitabile: altri mondi sono stati possibili, e possono tornare ad esserlo.

Alcune società del passato, prive di Stato, mercato o sorveglianza,  avevano sviluppato modelli istituzionali alternativi, con sistemi di rotazione stagionale del potere, ciclicità dei ruoli, sovranità temporanea. Erano forme flessibili, sperimentali, spesso ibride, capaci di tenere insieme autorità e libertà, centralità e dispersione. Non si tratta di imitarle, ma di riconoscere che la politica è sempre stata anche esercizio dell’immaginazione. Pensare forme nuove di governance collettiva nel digitale è un atto di continuità con questa capacità di inventare istituzioni.

Inoltre, va affrontata una questione di scala e potere negoziale. Se ogni comunità locale, da sola, si trova a contrattare con soggetti globali come Google o Amazon e tutti gli altri grandi attori, l’esito sarà inevitabilmente asimmetrico. Serve quindi una capacità di federazione tra soggetti collettivi, in grado di creare alleanze, reti di tutela, standard comuni. Occorre una diplomazia del dato, capace di far valere il peso delle comunità anche oltre il proprio perimetro territoriale. Una forma di coalizione cognitiva che non si limiti alla difesa, ma costruisca proposte autonome di infrastruttura, sapere, governance.

Finché i beni restano comuni, restano disponibili, soprattuto nel digitale, per chi ha capacità di estrazione. La proprietà collettiva, invece, impone la costruzione di un soggetto: assemblee, regole, statuti, governance. Non è la via più semplice, ma è quella che permette di opporsi alla logica della cattura. È una promessa di giustizia che si fa infrastruttura, un’idea politica che si trasforma in istituzione. E oggi, senza nuove istituzioni, i dati resteranno materia grezza a disposizione del potere computazionale. Solo una politica delle proprietà collettive può renderli nuovamente abitabili.

Immagine: “La colonna senza fine” di Constantin Brâncuși (1938, Târgu Jiu, Romania). Una forma aperta, modulare, senza cima né base definitiva. Una metafora per la continuità collettiva, l’elevazione comunitaria e la modularità dei domini.