La religione civile dell’intelligenza artificiale

Fino a qualche settimana fa non conoscevo Charlie Kirk se non come investitore nel digitale, e anche dopo la sua morte, tranne la misericordia che si ha per ogni vivente della mia specie, non ci avevo prestato molta attenzione. Ma i fatti degli ultimi giorni allungano la prospettiva. Kirk non è morto. O meglio: non è morto come muoiono gli altri. La sua scomparsa ha assunto i tratti di una epifania civile. Charlie Kirk non è morto da solo. È morto dentro un rito. Un rito di fondazione.

Non si è celebrata solo una delle molte, tristi e compassionevoli fini di un attivista: si è officiata l’inaugurazione di un nuovo patto, dove la politica si inginocchia alla tecnologia, e la tecnologia si fa religione civile. Il memoriale in Arizona, con duecentomila presenti e l’apparizione congiunta di Musk e Trump, gesto simbolico, coreografico, non è stato un omaggio ma una liturgia. Una consacrazione pubblica di quella che ormai non è più una convergenza ma una fusione: tra capitale di rischio, ideologia identitaria e intelligenza artificiale.

Kirk non ha programmato nulla, non ha brevettato un algoritmo, non ha scritto un paper. Ma ha fatto ciò che conta davvero: ha dato forma politica e visibilità pubblica a un assetto che prima operava spesso nell’ombra. Ha messo lo spirito di Trump a sedere accanto ai round di finanziamento di Groq, Perplexity, Nvidia e tutti gli altri.  Non come esperto, ma come ponte sacrale tra due chiese: quella populista e quella tecno-finanziaria.

Kirk è stato un investitore iniziale di 1789 Capital, il fondo VC fondato da Omeed Malik (con Chris Buskirk e Rebekah Mercer) e poi affiancato da Donald Trump Jr. come partner. Con 1789 Capital, Kirk ha traghettato, insieme a altri,  il denaro MAGA nei territori dove si decide cosa sarà “umano” tra dieci anni. Non nei comitati etici, non nei laboratori pubblici, ma nei tavoli chiusi dove si distribuiscono capitali e si disegnano le traiettorie dell’innovazione. I chip, i data center, gli LLM: non strumenti, ma fondamenti. Non tool, ma architetture del possibile, strutture epistemiche che definiscono chi potrà parlare, prevedere, decidere. Così la destra americana, quella vera, ha smesso di combattere la tecnologia come demone liberal e ha deciso di impadronirsene, riscriverla, consacrarla come vettore di egemonia. Un’egemonia che non passa più dai programmi elettorali, ma dagli stack tecnologici: dall’hardware al linguaggio, dall’infrastruttura alla narrazione.

È in questo che Kirk diventa funzione: il martire del nuovo ordine. Non un santo, non un genio, ma un organizzatore del senso, un catalizzatore ideologico per un’alleanza che ha bisogno di simboli, corpi, sacrifici.

Anche il Parlamento italiano ha deciso di commemorarlo ufficialmente, trasformando un gesto politico in atto simbolico. Non è solo un omaggio, è un segnale di appartenenza a una narrazione globale che unisce identità, tecnologia e potere. La politica che celebra i suoi rovesciamenti come se fossero lutti. Ma non è un lutto, è una ascensione.

E l’Italia, in questa abdicazione, non è sola. Anche il Regno Unito ha accettato di inginocchiarsi davanti ai nuovi padroni dell’intelligenza. Trump e Keir Starmer hanno firmato un accordo miliardario con gli AIgarchi americani: 250 miliardi di sterline, soldi di Nvidia, OpenAI e altri colossi della Silicon Valley. Non un patto per l’innovazione, ma un trattato di sottomissione cognitiva. Non una nuova culla della ricerca, ma una filiera a basso valore aggiunto, pensata per eseguire e non per decidere. Una colonia digitale dell’impero americano, dove il sapere è importato e il futuro è deciso altrove.

E intanto, sullo sfondo, l’Executive Order firmato da Trump a luglio, che spinge la costruzione di data center sopra i 100 MW allentando i vincoli ambientali. È lo stesso schema: accanto al culto, l’infrastruttura. Accanto al rito, il calcolo. Trump non vuole solo tornare a governare: vuole governare l’intelligenza. Quella che non si candida, non si oppone, non si indigna, ma si indigna davanti a una violenza necessaria, non certo contro i viventi, ma contro le infrastrutture come è successo ieri alla stazione di Milano.

Musk, da parte sua, è già dentro la partita: xAI, Tesla, rapporti strategici con Nvidia, OpenAI, Microsoft. Seduto al memoriale come un sommo sacerdote del possibile, è la prova che l’AI è ormai campo di alleanza, non solo di innovazione. E poi c’è Curtis Yarvin, ospite qualche tempo fa nello show di Kirk; teorico del post-democratico, che predica la necessità di abbandonare il parlamentarismo come zavorra. È lì che il disegno si scopre per intero: non è un’operazione di mercato, ma un progetto spirituale mascherato da strategia. Il longtermismo, nato nei centri accademici di Oxford, si declina oggi come riforma ontologica della civiltà, un piano per costruire un futuro governato da pochi, in nome del rischio per tutti. Non si tratta più di prevedere scenari: si tratta di prenderne il controllo. Ed è qui che la frattura si rivela: l’universalismo, oggi rifugio retorico della sinistra globalista, si scontra con un particolarismo che rifiuta ogni regola condivisa. Non due idee del futuro, ma due concezioni inconciliabili di potere. Due versioni della stessa utopia tecnocratica, che si manifestano in forme solo apparentemente distanti. Il vocabolario resta formalmente condiviso: rischio, sopravvivenza, intelligenza, ma l’orizzonte a cui risponde è radicalmente diverso: da una parte un universalismo che pretende di costruire regole globali e sistemi di tutela collettiva, spesso rivendicato come vocazione etica della sinistra contemporanea; dall’altra un particolarismo identitario che rifiuta ogni autorità esterna e mira a concentrare la capacità di intervento prima ancora che emergano le condizioni per regolarla. In mezzo, l’intelligenza artificiale: non come strumento neutro, ma come terreno di contesa sacra. Da un lato, lo scienziato longtermista Bostrom e tutti i suoi discepoli, anche italiani, oxfordiani e i suoi algoritmi morali, portatori di un discorso sul rischio esistenziale e sulla necessità di una governance planetaria fondata su criteri di razionalità universale. Dall’altro, Kirk, Thiel, Malik, Yarvin e l’America profonda populista certamente e magari anche un po’popolare,  che utilizzano quel medesimo linguaggio per mascherare una strategia di concentrazione del potere, finalizzata a garantire a sé stessi l’egemonia culturale, politica e tecnologica nel nome di una civiltà particolare. Non che la sinistra (sarebbe da ricercare termini nuovi a questi, ormai inconsistenti sia per la storia che per il futuro)  non provi a fare lo stesso: solo che lo fa male, goffamente, incapace di tradurre la pretesa egemonica in forza reale.

La morte di Kirk non chiude un’epoca: la inaugura, la consacra, le dà una grammatica. Come ogni martirio politico, non serve a ricordare il passato ma a legittimare una nuova fondazione. Una fondazione dove l’intelligenza artificiale non viene più discussa come mezzo, ma venerata come destino. Dove il capitale non finanzia l’innovazione, ma la costruzione di un ordine sacro. Dove il populismo non rappresenta più una rivolta contro le élite, ma diventa liturgia collettiva che consacra le nuove forme del potere.

 

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