Si comincia da un corpo che cade, non da un’idea. Chi è oggi Janek Wiśniewski?

di Nicola Pirina e Michele Kettmajer

Nel dicembre del 1970, alla stazione di Gdynia, un ragazzo di diciott’anni, Zbyszek Godlewski, scende dal treno e viene colpito dai militari che hanno ordine di reprimere nel sangue lo sciopero degli operai. I suoi compagni, in un gesto che non ha nulla di teatrale ma tutto di ancestrale, lo sollevano su una porta di legno e lo portano in corteo, come si porta un’icona, come si porta una croce, come si porta la verità quando non la si può più pronunciare. Il suo nome non viene subito conosciuto, e proprio per questo un poeta , Krzysztof Dowgiallo, sceglie di dargliene uno qualsiasi, e dunque assoluto: Janek Wiśniewski. Da quel momento il corpo diventa simbolo, non nella forma del monumento astratto o della retorica di partito, ma nella forza cruda e feriale di un lutto condiviso, che si trasmette per via orale, attraverso nastri registrati di nascosto, nelle case, nelle chiese, nei silenzi tra le parole. Quella ballata non glorifica un eroe, non chiama alla vendetta, non pretende culto: restituisce un nome all’anonimato imposto, produce un lessico affettivo condiviso, installa, con mezzi poveri ma con straordinaria precisione semantica, la prima versione di un software culturale che avrebbe permesso, dieci anni dopo, a persone diversissime per estrazione sociale, fede religiosa e convinzioni politiche, di riconoscersi nella parola “noi”, non come muro identitario, ma come spazio aperto in cui coesistere, nominarsi, esistere insieme. Ma sarebbe ingenuo idealizzare retrospettivamente quel “noi” come unità compiuta: anche in Polonia, quella comunità emersa dalla convergenza di dolore, fede e rivendicazione è stata nel tempo attraversata da tensioni, fratture, appropriazioni ideologiche e contrapposizioni profonde. È proprio in questa consapevolezza storica che risiede la sua forza: non nell’uniformità, ma nella capacità, per un tempo, di tenere insieme differenze e conflitti sotto un vincolo comune di dignità e memoria condivisa.

Il passaggio dalla clandestinità alla costruzione di una comunità non si compie per accumulazione di slogan o per escalation di conflitto: ha bisogno di materia, di luoghi, di gesti che rendano pubblica e stabile la memoria. Nel 1980, davanti ai cancelli del cantiere navale di Danzica, lo spazio urbano viene modificato da tre croci d’acciaio con ancore, erette come memoriale per i caduti del 1970. È la prima volta che, in un Paese comunista, viene autorizzata la costruzione di un monumento che commemora le vittime del regime stesso: la società, attraverso una convergenza silenziosa ma determinata, obbliga lo Stato a riconoscere ciò che finora aveva rimosso. Ma quella convergenza non nasce dal nulla: è il frutto di una sedimentazione lenta, fatta di canti condivisi, veglie collettive, reti parrocchiali, nuclei sindacali informali, artisti e intellettuali che mantengono viva una memoria altra, circolante sotto traccia, resistente all’oblio istituzionale. È da questa trama minuta ma tenace che prende forma la pressione sociale che rende irriducibile la richiesta di riconoscimento. Il passaggio è cruciale: la canzone diventa pietra, la ferita diventa forma, il lutto diventa spazio. Il potere, che aveva cercato di spezzare la continuità tra corpi, nomi e memoria, viene costretto a concedere un luogo fisico, permanente, dove tutto questo possa convergere. Le Tre Croci non sono un simbolo religioso nel senso confessionale del termine: sono una riformulazione materiale della giustizia come forma dell’abitare.

È in questo contesto che il 2 giugno 1979 atterra a Varsavia Giovanni Paolo II. Il gesto che compie non è quello di un capo di Stato in visita diplomatica, ma quello di un figlio che torna a casa. Bacia la terra, saluta senza inchini ideologici, si rivolge al popolo con un lessico familiare, riconoscibile, intimo. La sua è una liturgia civile mascherata da omelia, un dispositivo simbolico potentissimo che, senza nominare il nemico, alza lo standard di ciò che è umano, possibile, desiderabile. Il punto non è fare del Papa il padre di Solidarność, ma capire cosa ha reso efficace il suo discorso. Il suo discorso non si regge sulla forza di un carisma personale, ma sull’intreccio di quattro assi portanti che, più che delineare un messaggio, costruiscono una struttura: l’uomo non si capisce senza Cristo, perché solo in quella relazione si misura la dignità; la memoria non è celebrazione ma capitale civile, territorio della coscienza; lo Spirito non è decoro liturgico ma energia abilitante, invocata per rinnovare la faccia della terra, di questa terra; i diritti non sono concessioni ma standard operativi, la metrica con cui giudicare storia e istituzioni. Non è omelia religiosa: è architettura della libertà. Quando afferma che “non si capisce l’uomo senza Cristo” e che “non si capisce la Polonia senza Cristo”, non sta imponendo una teologia né reclamando uno spazio per la Chiesa, ma sta riaffermando, davanti alla Tomba del Milite Ignoto, che la memoria non è proprietà dello Stato, né concessione dell’ideologia, ma capitale civile da restituire alla coscienza collettiva. In quel momento preciso, la memoria collettiva, fino ad allora dispersa, compressa, frammentata in gesti privati o sussurrati, viene restituita alla cittadinanza come bene comune: Wojtyła rende la memoria un bene pubblico. Non come archivio da custodire, ma come motore per agire. Non come retorica del passato, ma come condizione per un presente libero dalla paura. Il sangue, il sudore, la preghiera, la fatica, l’amore, il pensiero, tutto ciò che ha costruito la comunità viene riconsegnato all’eucaristia come gesto politico: non per sacralizzare lo Stato, ma per sottrarlo all’idolatria.

La sua invocazione finale , «Scenda il tuo Spirito… e rinnovi la faccia della terra. Di questa terra!» , è l’elemento che sigilla il patto: non una preghiera evasiva, ma una localizzazione radicale della speranza, che diventa immediatamente appello pubblico, spirituale e civile. Nessuna invettiva, nessuna semplificazione: solo una ridefinizione silenziosa e potentissima dei parametri della cittadinanza. Non si chiede libertà come concessione, la si esercita come processo interiore. Ed è per questo che, nel giro di un anno, ciò che accade in Polonia non è una rivoluzione nel senso tradizionale del termine, ma la nascita di una soggettività collettiva: Solidarność non è solo un sindacato, ma una comunità politica che emerge dal riconoscimento reciproco di coloro che, lavorando, ricordando, pregando, cantando, edificando, si erano già scoperti parte dello stesso corpo.

A completare il ciclo arriva nel 1981 L’uomo di ferro di Andrzej Wajda: un film che raccoglie le voci, le pietre, le immagini, i canti, e li traduce in linguaggio universale. Non è il cinema a fondare il mito, ma è il mito, già vivo, a trovare nel cinema un vettore di eco globale. Quando Lech Wałęsa appare nel film come sé stesso, quando la ballata di Janek risuona nella versione di Krystyna Janda, non si sta celebrando un’epopea: si sta certificando che un popolo, a partire da un corpo, ha saputo costruire un sistema operativo della coscienza.

Ed è qui che si apre la questione del nostro presente. Perché oggi, in un’epoca in cui le comunità sembrano sgretolate, i riti svuotati, la memoria appaltata agli algoritmi e il lavoro ridotto a prestazione individuale, l’intera vicenda di Janek, delle Tre Croci, di Varsavia 1979 e di Solidarność non è solo una lezione di storia, ma una mappa da decifrare. Ma decifrare non significa replicare: significa estrarre da quella traiettoria alcuni strumenti concreti per orientarsi nel nostro tempo. Allora come oggi, ciò che genera trasformazione non è la sommatoria delle opinioni, ma la convergenza di pratiche: una memoria condivisa che diventa forma pubblica, un gesto simbolico che si radica in spazi riconoscibili, una spiritualità che non si accontenta di interiorità, un linguaggio comune che permette di riconoscersi prima ancora di accordarsi.

Certo sarebbe un errore pensare che oggi manchino del tutto i corpi che cadono, i “noi” concreti o le pratiche condivise. Esistono forme di resistenza, di solidarietà, di costruzione comunitaria che si muovono su traiettorie meno visibili, più frammentate o fluide, talvolta digitali, talvolta territoriali, spesso non riconosciute dai linguaggi ufficiali. La sfida non è solo evocare la potenza di un passato condiviso, ma imparare a riconoscere le costellazioni minute e nascoste del presente: movimenti di quartiere, comunità digitali resilienti, spazi di mutualismo e pratiche spirituali non codificate che mantengono viva, sotto traccia, la possibilità di un legame. Non si tratta di copiare la forma di un monumento o di evocare la retorica di una canzone, ma di ricreare le condizioni di possibilità per cui lavoro, parola, rito e fiducia possano di nuovo coabitare uno spazio collettivo. Non bastano le idee, se non c’è un corpo. Non bastano le parole, se non diventano forma. Non bastano i simboli, se non sono abitati da un “noi” riconoscibile, inclusivo, concreto, composto di differenze che si ascoltano.

Se oggi si vuole tornare a immaginare una politica che non sia quella dei leader, dell’agenda dei media e dei potenti, una comunità che non sia solo aggregato di dati, un’identità che non sia merce di scambio, occorre forse ripartire da qui: dal lavoro come gesto relazionale, dal rito come codice della memoria, dalla religione come grammatica del limite e della dignità, dalla comunità come costruzione paziente di un vocabolario condiviso. E da una domanda che, allora come oggi, non può essere delegata: di quale terra stiamo parlando, quando parliamo di libertà? E chi è oggi Janek Wiśniewski?

E forse è proprio in questa frattura tra rito e potere, tra corpo e astrazione, tra dolore e propaganda, che si può intravedere una forma di spiritualità non più redentrice nel senso consolatorio del termine, ma abitativa, concreta, immersa nella crepa del mondo, capace non di offrire salvezza ma di restare accanto a ciò che brucia, senza fughe nella trascendenza, senza nostalgie dell’innocenza, senza idolatria della purezza. Una spiritualità che, sia essa cristiana, islamica, ebraica o appartenente a qualsiasi altra tradizione, non tutela l’identità come fortezza, ma la disinnesca; che non promette un altrove, ma costringe a guardare da subito, da qui, questa terra e le sue ferite.

Michele Kettmajer e Nicola Pirina

 

Immagine: Il corpo di Janek Wiśniewski sulla porta di legno.