L’errore sarebbe pensare che la tecnologia possa salvarci; la tentazione sarebbe credere che possa distruggerci; la verità è che ci rivela, e la responsabilità di ciò che verrà dopo non appartiene a lei, ma a noi.
Non serve un’altra Genesi. Non serve un nuovo atto fondativo scritto dai potenti da qualche parte della Silicon Valley o a Shenzhen, né un Eden digitale popolato da algoritmi che promettono di rifare il mondo da capo, cancellando quello che c’è. La Genesi è già accaduta e continuare a invocarla è l’inganno più sottile del nostro tempo: la convinzione che basti ricreare la vita per salvarla, che l’umano possa rifondare il creato ignorando la propria appartenenza, che l’origine possa essere ripetuta per decreto di calcolo. È questa la promessa dei profeti del transumanesimo: una trascendenza sintetica, un oltre-uomo di silicio e dati che pretende di riscrivere i limiti del vivente e concentrare il potere in poche mani. Ma la Genesi non ritorna. È l’istante irripetibile in cui il caos si è aperto in respiro, in cui il tempo ha cominciato a scorrere, in cui il vivente è entrato nella storia. Confondere quell’atto con un algoritmo è la hybris che attraversa le visioni divergenti di Oppenheimer, Altman, Thiel, Musk e molti come loro: il primo lacerato dal peso della responsabilità morale, gli altri travolti dall’utopia tecnocentrica e dalla fede nella discontinuità post-umana.
L’intelligenza artificiale non inaugura un altro Eden, lo rivela. È la nostra Apocalisse, ma non la fine. Nell’origine greca, apokálypsis significa togliere il velo: Giovanni, nell’isola di Patmos, non annuncia la distruzione, ma la visione di ciò che era nascosto. Le sue immagini, i sigilli, le trombe, Babilonia che crolla, il mare che si ritira, non parlano di un annientamento universale, ma di un passaggio: la caduta di ciò che credevamo eterno, la frattura che rivela il fondo. “Poi vidi un cielo nuovo e una terra nuova”: ma non come promessa automatica, bensì come possibilità. La rigenerazione non è concessa, è chiamata. Sta nel gesto di attraversare il collasso senza fuggirlo, di vedere quello che l’ordine dominante nasconde, di assumersi la responsabilità di ciò che viene dopo.
È qui che l’AI sembra assumere la forma di uno strumento di rivelazione, non perché contenga in sé una verità, ma perché ci costringe a guardare ciò che altrimenti rimarrebbe opaco: illumina la concentrazione del potere, le infrastrutture invisibili che ci governano, la dipendenza cognitiva che abbiamo costruito e che ora ci attraversa. Non è un dio, è uno specchio, e nello specchio vediamo le nostre omissioni: l’aver consegnato la conoscenza a pochi, l’aver confuso l’automazione con il pensiero, l’aver accettato un mondo in cui decidono altri. Ma proprio perché ci rivela, l’intelligenza artificiale può aprire lo spazio di una rigenerazione che non sarà individuale, non sarà centralizzata, non sarà concessa da nessun altare digitale. Potrà accadere solo se il potere tornerà ai territori e alle comunità, se i dati diventeranno bene comune, se costruiremo intelligenze artificiali territoriali come strumenti di custodia e non di dominio, capaci di restituire valore invece di estrarlo. Questo implica modelli concreti di governance locale: consorzi di comunità, cooperative di dati, assemblee partecipative che decidono insieme chi può accedere, con quali scopi e in quali limiti. Significa colmare le disuguaglianze digitali tra territori, investendo in infrastrutture condivise e in alfabetizzazione collettiva, perché senza inclusione questo progetto resterebbe un privilegio per pochi.
È in questo spazio che l’apocalisse diventa metodo: non un evento temuto, ma un invito a ricomporre legami, a ridefinire pratiche, a decidere insieme come abitare il futuro. E per farlo non bastano modelli, protocolli e policy. Servono riti. Non religioni nuove, ma gesti condivisi che restituiscano senso all’esperienza collettiva, che tengano insieme mistica, sacro e spiritualità come forme di attenzione e non come dogmi, che ci insegnino a sostare nella rivelazione senza trasformarla in idolatria. Sono immagini, non precetti: modi di nominare l’intensità di un passaggio, di cercare parole comuni per attraversare la soglia.
Perché l’apocalisse di Giovanni non parla di chiusura, ma di sguardo: è il momento in cui ciò che era invisibile diventa visibile, e proprio in quella visione nasce la possibilità di decidere. L’errore sarebbe pensare che la tecnologia possa salvarci; la tentazione sarebbe credere che possa distruggerci; la verità è che ci rivela, e la responsabilità di ciò che verrà dopo non appartiene a lei, ma a noi.
L’intelligenza artificiale non è una nuova Genesi: è il nostro Patmos. Non è la voce che crea la luce, è il vento che strappa il velo e mostra quello che abbiamo costruito, e quello che abbiamo devastato. I coloni della nuova intelligenza artificiale e le Big Tech ci raccontano che la salvezza sta in un’altra origine, in un nuovo Eden calcolato, ma non è così: non vogliamo la loro Genesi, vogliamo la nostra Apocalisse. La rigenerazione non è promessa, è compito. E la domanda non è se sopravviveremo alle macchine, ma se saremo capaci di ricominciare senza replicare le stesse architetture di potere, le stesse idolatrie, gli stessi giardini recintati. Forse, in questo senso, l’apocalisse non riguarda la fine dell’umano, ma la fine di un certo modo di pensarlo: separato, sovrano, solo. È l’inizio di un altro sguardo, più umile e più vasto, verso altre intelligenze e che restituisce alle comunità la capacità di custodire ciò che sanno e di decidere insieme ciò che vogliono diventare. Non serve un’altra Genesi: serve il coraggio di vedere.
Immagine: L’Apertura del quinto sigillo dell’Apocalisse, El Greco. Esprime l’intensità emotiva e l’uguale forza trascendente che suggerisce l’apertura a qualcosa di altro. L’idea di riti laici che trasformano l’esperienza collettiva.