Le piattaforme digitali, vecchie e nuove? Dimenticate talento e idee: non è da questo che si parte

L’idea che le piattaforme digitali, di ieri come di oggi, siano nate dall’incontro tra grandi idee, capitale, post crisi 2008, disponibile e l’azione coordinata della filiera degli investimenti è una narrazione ormai da dimenticare. È una spiegazione comoda, ma non spiega davvero perché alcune piattaforme siano emerse e altre, incredibilmente più innovative e utili alla collettività, siano scomparse o abbiano faticato a svilupparsi. La risposta è che la sopravvivenza non dipende soprattutto dal valore dell’idea o dalla sua utilità sociale, ma dalla sua aderenza a percorsi strategici già definiti, alla capacità di inserirsi in reti di potere e di rispondere a logiche di controllo, raccolta dati e scalabilità.

Non è questione di élite o di carbonerie, il potere, in questo contesto, non è solo la forza economica o politica di un singolo attore: è la capacità di orientare il campo da gioco. Significa decidere quali infrastrutture costruire e quali smantellare, quali regole far rispettare e quali sospendere, chi includere e chi lasciare ai margini. È la facoltà di trasformare una scelta contingente in uno standard permanente, ridisegnando lo spazio delle possibilità.

La verità è che il mutamento del lavoro e la scomparsa di intere mansioni non sono stati l’effetto spontaneo di creatività imprenditoriale e capitale intelligente, ma il risultato di percorsi strategici, costruiti per concentrare potere, controllo e flussi di denaro. E questi percorsi non puntavano solo al profitto: miravano anche a creare infrastrutture di controllo, definire standard globali, garantire accesso privilegiato ai dati e influenzare le regole del gioco per decenni.

Dimenticate i talenti e le buone idee: non è quello che cercano. Le logiche che decidono chi avanza e chi scompare non premiano l’originalità, la sostenibilità o l’impatto civico, ma l’allineamento con le traiettorie strategiche già decise. Per ogni startup che ha avuto successo, decine di altre, magari più utili o visionarie, non sono mai andate oltre la fase iniziale perché non generavano abbastanza dati, non offrivano modelli di profitto scalabili o richiedevano forme di governance troppo aperte. Certo, bisogna provarci, ma spesso in altri luoghi, in altri circuiti, lontano dai corridoi dove il potere seleziona cosa può crescere.

Quando Google e Facebook sono emerse, AI e cloud non erano ancora al centro del discorso, ma le fondamenta erano già pronte: connessioni veloci, data center in espansione, protocolli per orchestrare grandi flussi di dati e modelli di business basati sulla monetizzazione della vita digitale. Le piattaforme che si sono imposte sono quelle che si allineavano a queste traiettorie, mentre altre sono state assorbite o schiacciate.

Il percorso dall’idea al mercato passa sempre per filtri strategici: acceleratori, incubatori, angel investor e venture capital non sono mecenati indipendenti, ma nodi di reti collegate a banche d’affari, fondi sovrani e programmi statali. Gli angel investor, spesso ex dirigenti di grandi aziende o figure con legami diretti con apparati finanziari e istituzionali, agiscono come primi selezionatori, aprendo o chiudendo l’accesso alla filiera del capitale. I venture capital, collegati a fondi internazionali, banche e governi, non si limitano a fornire risorse: impongono metriche di crescita, modelli di governance e strategie di espansione coerenti con interessi più ampi. In questo modo, il denaro non è mai neutro: serve a rafforzare un percorso già stabilito e a garantire che chi riceve i fondi resti vincolato alle logiche che li hanno resi possibili. Il lancio avviene sempre all’interno di infrastrutture già operative: reti globali, sistemi di pagamento planetari e regole pensate per accelerare la diffusione.

Accanto a questo, c’è un elemento spesso ignorato: l’uso strategico della normativa. Le cosiddette “aree grigie” non sono il frutto di vuoti legislativi imprevisti, ma spazi intenzionalmente mantenuti opachi o flessibili per permettere alle piattaforme di crescere senza vincoli. Questi margini di ambiguità giuridica consentono di testare modelli di business controversi, aggirare tutele del lavoro o norme fiscali, e creare precedenti che, una volta consolidati, orientano la futura regolamentazione a favore dell’attore dominante. In molti casi, le stesse istituzioni che dovrebbero regolamentare adottano una strategia di “tolleranza attiva”, accettando temporaneamente pratiche borderline con la giustificazione dell’innovazione, pur sapendo che ciò consoliderà un potere difficilmente reversibile.

Uber non sarebbe nata senza il GPS di origine militare, senza Visa e Mastercard e senza città pronte a sperimentare politiche di smart city. Non è solo questione di geolocalizzazione: l’intero modello di business si fonda su infrastrutture di tracciamento, pagamenti digitali e regolamenti urbani permissivi. Airbnb non sarebbe cresciuta senza anni di deregolamentazione del settore alberghiero e senza sistemi di pagamento e identità digitale già consolidati, elementi che hanno reso possibile l’aggiramento delle normative locali e la scalabilità globale. Amazon Mechanical Turk non è un semplice mercato online: è parte della strategia di AWS per frammentare e assorbire lavoro cognitivo, sfruttando la disponibilità di una forza lavoro globale sottopagata e attingendo a tecniche di analisi dei dati sviluppate per l’intelligence, trasformando attività umane in componenti modulari di un’infrastruttura algoritmica. E cosi si potrebbe raccontare di molte altre.

Le zone franche e le regole flessibili dell’inizio non sono sviste: sono strumenti per penetrare nei mercati, radicare il modello e, una volta consolidato, blindarlo. La normativa oscura o volutamente incompleta non è un ostacolo, ma un alleato nella fase di espansione. E a quel punto, ciò che era un’“innovazione” diventa infrastruttura permanente, impossibile da aggirare senza riscrivere le regole del sistema.

Non si tratta di nostalgia per ciò che è andato perso o di demonizzare ciò che è emerso. Si tratta di riconoscere che l’innovazione, così come la vediamo passare per vincente, non è mai solo una gara di ingegno o di mercato: è una mappa di scelte politiche, economiche e culturali che decidono chi può parlare, chi può crescere, chi può restare. Guardare questa mappa per intero è l’unico modo per non confondere il sentiero con il destino. La corsa attuale all’AI ripete lo stesso schema: selezione ristretta, zone normative d’ombra, centralizzazione del controllo. Cambiano le tecnologie, non il disegno.

Immagine: La Loge” di Pierre-Auguste Renoir: un interno teatrale elegante, con spettatori in primo piano e il palcoscenico suggerito sullo sfondo, perfetto per evocare la spettacolarizzazione e il retroscena nascosto.