Non è tecnologia, è potere: Trump e Xi stanno installando il futuro

Non stiamo assistendo a una corsa, ma all’installazione di un nuovo sistema operativo globale. L’intelligenza artificiale non è più un’infrastruttura tecnica: è il codice sorgente con cui si riscrivono le gerarchie geopolitiche, le catene produttive, le relazioni sociali. E Donald Trump e Xi Jinping stanno definendo – ciascuno a modo suo – le istruzioni fondamentali con cui il pianeta verrà eseguito nei prossimi decenni.

Trump lo fa come sempre, senza filtri. Con “Winning the Race AMERICA’S AI ACTION PLAN“, di pochi giorni fa, smantella in un colpo solo le residue retoriche etiche sull’IA, cancellando ogni riferimento alla riduzione dei bias o alla trasparenza. La parola d’ordine è “predominio”. E il campo di battaglia non è l’algoritmo, ma l’ecosistema industriale: data center da oltre 100 megawatt, terra federale liberata dai vincoli ambientali, supply chain energetiche e minerarie piegate agli interessi della sicurezza nazionale. Come nella corsa allo spazio, ciò che conta non è la qualità del pensiero, ma dove farlo accadere, con quale potenza di calcolo, e sotto quale bandiera. L’intelligenza artificiale viene pensata come dispositivo di potere verticale, un complesso industriale-militare che fonde informatica, logistica e deterrenza.

Xi Jinping risponde con la grammatica dell’impero. La Cina non ha bisogno di visioni messianiche. Ha bisogno di durata. La strategia è quella del consolidamento sistemico: autosufficienza tecnologica, ricentralizzazione statale, saturazione del tessuto economico con infrastrutture integrate, minerarie, digitali, semantiche. L’IA cinese non è neutra, ma disciplinare. Non serve a pensare, ma a governare: riconoscimento facciale, modelli linguistici con filtro ideologico, giustizia predittiva, credito sociale. Xi costruisce l’intelligenza come ordine operativo, un’estensione digitale della continuità dinastica. L’obiettivo non è correre, ma impedire il collasso.

Taiwan sta in mezzo. Non come attore, ma come bottino. L’isola, con i suoi chip, è diventata il nodo energetico del pensiero artificiale globale. Controllare Taiwan significa controllare il ritmo di esecuzione del sistema operativo dell’AI. Significa decidere chi pensa, e chi aspetta. Per questo, al centro della contesa non ci sono solo gli algoritmi, ma i wafer, la silice, le terre rare, tutto ciò che permette alla mente artificiale di avere un corpo.

In questo contesto, la finanza non è più indipendente: è funzione algoritmica. I flussi di capitale seguono i picchi di calcolo, le borse reagiscono ai ritardi nei chip, gli investitori si spostano dove ci sono energia e stabilità geopolitica. Le monete si muovono come vettori cognitivi. L’intelligenza non è solo computazionale: è estrattiva, coloniale, materiale. Un nuovo ordine cognitivo che funziona come ogni ordine imperiale: seleziona, distribuisce, esclude.

E l’Europa? L’Europa non c’è. Non perché sia neutrale, ma perché ha già scelto di essere interfaccia. Oscilla tra una governance normativa che non regge e un’accettazione passiva delle infrastrutture altrui. Costruisce regolamenti, ma compra GPU. Redige AI Act, ma firma accordi con le Big Tech che tutto fanno tranne seguire le norme europee. L’Europa ha rinunciato a scrivere codice, e si accontenta di cliccare “Accetto” per installare il nuovo sistema operativo.

Ma un continente che non possiede né i server, né le miniere, né i chip, né il linguaggio, non è più un attore geopolitico. È un mercato da gestire. Una colonia digitale che si illude di poter normare il potere da cui dipende. L’assenza europea è la più pericolosa perché non è visibile: si mimetizza dietro il linguaggio dei diritti, mentre accetta l’infrastruttura del dominio.

Eppure, l’Europa potrebbe ancora scegliere un altro ruolo. Non quello del terzo polo tecnologico, un’illusione anacronistica, ma quello di zona franca del pensiero critico, laboratorio di forme intelligenti non orientate al dominio, e terreno costituente per una nuova alleanza tra territorio, cultura e calcolo. Potrebbe promuovere una intelligenza territoriale, fondata sulla proprietà collettiva dei dati, sull’autonomia energetica distribuita, su modelli di AI addestrati localmente, in funzione dei bisogni di comunità e territori, non delle economie di scala dei colossi privati.

Potrebbe dismettere la retorica della regolazione e cominciare a costruire infrastrutture cognitive pubbliche: chip open source, data center cooperativi, sistemi educativi che insegnano a disobbedire all’ottimizzazione. Potrebbe usare il suo peso economico non per attrarre investimenti, ma per sovvenzionare l’alternativa: una rete europea di intelligenze plurali, lente, imperfette, radicate nei luoghi e nelle lingue. Non una AI per il mercato, ma una AI e altre intelligenze per le forme di vita.

Questo non significa essere neutrali. Significa diventare inabitabili per il potere imperiale dell’intelligenza artificiale, costruire un paesaggio tecnico che respinga l’accumulazione, che renda impossibile l’estrazione, che renda non conveniente il dominio. Un’Europa così non vincerebbe la corsa all’IA. Ma saboterebbe la corsa stessa. E in un’epoca che ha fatto del futuro un algoritmo, questo sarebbe già un atto rivoluzionario.

Potrebbe, inoltre, stringere alleanze non colonizzanti con l’Africa e con i paesi del Sud Globale. Non per “aiutare lo sviluppo”, ma per riconoscere la centralità di un continente già oggi cruciale per le geografie materiali dell’intelligenza: terre rare, cobalto, rame, ma anche dati biometrici, reti di sorveglianza, laboratori di modelli predittivi su popolazioni precarizzate e colonizzate. Riconoscendo la cultura e le tradizioni delle comunità di quei luoghi. Gran parte dell’Africa è già dentro l’orbita economico-infrastrutturale cinese,  estrazione mineraria, telecomunicazioni, porti, poli digitali, ma non è ancora del tutto assoggettata sul piano semantico.

L’Europa potrebbe agire qui, non da investitore né da regolatore, ma da complice epistemico di una rivoluzione silenziosa. Dovrebbe coinvolgere culture indigene, linguaggi locali, cosmologie relazionali per pensare un’altra intelligenza: una AI non antropocentrica, non estrattiva, non orientata alla previsione, ma alla relazione. Potrebbe promuovere progetti di sovranità cognitiva comunitaria, in cui i dati non sono risorse da monetizzare, ma memorie collettive da custodire.

Questo significherebbe ripensare l’AI non solo come tecnologia, ma come forma del mondo. E farlo da sud, da dentro, da dove la terra è ancora viva e la tecnica non ha ancora annientato ogni significato. Solo così l’Europa smetterebbe di essere un mercato e tornerebbe a essere, almeno in parte, un pensiero.

Alla fine, il vero conflitto non è tra Trump e Xi. È tra chi scrive il codice e chi lo subisce. Tra chi pensa la macchina come leva di potere, e chi si racconta che è solo un tool. Se l’intelligenza artificiale è il nuovo sistema operativo del mondo, la domanda non è come regolarla. La domanda è se vogliamo continuare a vivere in un mondo eseguibile, o se c’è ancora spazio per una forma di pensiero che non sia computabile, prevedibile, ottimizzata. Una forma di pensiero che non serva a comandare. Ma a liberare.

 

Immagine: Joseph Wright of Derby – An Experiment on a Bird in the Air Pump (1768). Un esperimento scientifico notturno, con l’uccello che sta per morire. L’umanità come spettatrice di un esperimento senza etica. AI come strumento di controllo travestito da curiosità.