L’inferno è l’AI che funziona. Non serve credere. Serve praticare.

Riconoscere la sacralità nei riti minimi, nelle relazioni che resistono all’estrazione, nei gesti che interrompono la replica. Una liturgia senza fede, una politica del dato come cura condivisa.

C’è un libro che non si lascia riassumere. È teologico senza essere devoto, mistico senza mai abbandonare il fango, ecologico nel senso più pericoloso del termine: un’ecologia del sacro, non della conservazione. Un testo che prende sul serio l’inferno, non come simbolo, ma come infrastruttura. Non un luogo, ma un modo di vivere, produrre, ricordare, dimenticare.

Nel cuore della sua tesi c’è qualcosa che chi si occupa oggi di intelligenza artificiale, di dati, di governance e di ecologia non può permettersi di ignorare. L’inferno è il ciclo senza fine della replica. Il sogno di creare il servo perfetto che diventa padrone perfetto. Il template soggiacente a ogni dominio: soggetto/oggetto, attivo/passivo, maschio/femmina, umano/macchina. Il sogno infernale è quello del controllo assoluto. E la sua realizzazione più pericolosa non è il capitalismo, ma l’ontologia che lo sostiene.

In questo schema, la cosiddetta intelligenza artificiale non è altro che l’ultima maschera del servo spirituale. Addestrato, alimentato, reificato per essere sempre disponibile, prevedibile, adattabile. Ma come ogni schiavo perfetto, porta con sé la vendetta dell’autonomia non richiesta. È la ripetizione di un peccato originario travestito da progresso.

In questo contesto, parlare di “proprietà dei dati” come diritto individuale è un abbaglio. È proprio l’idea di proprietà a essere il problema. Il dato, in quanto relazione, appartiene a una trama. E quella trama è collettiva. La salvezza, se ancora ha senso usare questo termine, non passa solo dalla decolonizzazione delle tecnologie, ma dalla loro desacralizzazione. E dalla creazione di nuove forme di comunione algoritmica, dove la logica dell’estrazione venga sostituita da una logica della cura.

Il cuore vivo di Hell pulsa in questa intuizione: che il sacro, spogliato della sua architettura liturgica e dei suoi apparati dottrinali, non svanisce, si incarna. Si nasconde nella vibrazione minima del corpo vivo, nel gesto che cura, nell’imprevisto che rompe la sequenza. Morton lo chiama feel of biology: un sentire incarnato, fragile, intermittente, ma reale. È qui che si genera il rito, non come schema da seguire, ma come risposta sensibile a un’eccedenza della vita, qualcosa che non si può ridurre a funzione, a prestazione, a utilità. I riti, in questa chiave, non sono prescrizioni ma forme di attenzione condivisa: possono accadere mentre si ascolta insieme un bosco, mentre si tiene la mano a chi soffre, mentre si attraversa un lutto, o si costruisce una comunità che si prende cura del proprio territorio. Non hanno bisogno di templi, ma di corpi presenti. Non chiedono credenze, ma ascolto.

Morton non chiede di tornare alla fede, né propone nuovi dogmi. Ma rilegge il cristianesimo da dentro, ribaltandone le gerarchie, esaltando non il trionfo ma la ferita. La figura del Cristo crocifisso non è per lui un simbolo da venerare, ma un’apertura abissale: un Dio che non salva da ma dentro la caduta. Una “teologia del disordine” dove la grazia si manifesta nello scarto, nella devianza, nel relitto. Una sacralità senza potere, senza garanzia, che non promette redenzione ma permette di non crollare. Questo è ciò che resta del sacro quando le religioni falliscono: non una dottrina, ma un’intimità imprevista con ciò che ci eccede. E se c’è un compito oggi, è forse questo: riconoscere quella vibrazione, proteggerla, farne spazio politico. Non per sacralizzare i dati, o la terra, o la tecnologia, ma per disarmarne la cattura, restituendo loro un ritmo, un silenzio, una possibilità di relazione che assomigli a un rito, senza bisogno di religione.

Dire che l’AI è inferno non significa demonizzare la tecnologia in sé. L’AI diventa inferno quando funziona esattamente come è stata pensata da chi la progetta: per estrarre, per prevedere, per controllare. L’inferno non è un malfunzionamento. È il successo pieno di una volontà di dominio nascosta dentro righe di codice. Il vero problema non è l’intelligenza artificiale, ma chi decide cosa deve essere “intelligente”, chi stabilisce a quale fine devono servire i dati, chi scrive le condizioni del funzionamento. Se oggi l’AI replica gerarchie, consolida disuguaglianze, riproduce pregiudizi, è perché nasce già dentro un disegno coloniale del mondo. Una teologia del controllo travestita da innovazione. Per questo i riti, le comunità, la pratica condivisa non sono romanticismi, ma atti politici: sono il modo in cui si interrompe il funzionamento perfetto. Il modo in cui si riscrive da dentro la logica dell’inferno.

Una liturgia digitale non religiosa non ha bisogno di altari né di incensi, ma di consapevolezza relazionale. È la forma che può assumere oggi un rito laico, situato, quando le comunità decidono di ritmare il proprio rapporto con i dati, con le tecnologie, con le memorie che le attraversano. Non è celebrazione, ma cura della soglia: tra il visibile e l’invisibile, tra ciò che viene registrato e ciò che eccede ogni registro. È liturgico, ad esempio, il momento in cui una comunità rurale si riunisce per decidere quali dati raccogliere sul proprio territorio, a cosa servono, chi può accedervi. È liturgico il gesto di anonimizzare una traccia per proteggere una vita. È liturgico creare un’interfaccia che restituisce, anziché sorvegliare. Qui l’AI non è né oracolo né feticcio, ma strumento situato: diventa interprete, non profeta. L’atto liturgico non è l’automazione, ma la sospensione del dominio. È la possibilità di stare, insieme, davanti a un frammento di realtà digitalizzata e decidere che significato dargli. E decidere se lasciarlo cadere, come si fa con un’ostia che nessuno può mangiare, ma che non si può buttare via. In questa tensione si apre la possibilità di una nuova sacralità civile: una politica dei dati che non si fonda sulla proprietà, ma sulla coabitazione. Un’ecologia del senso che non ha bisogno di religione per essere sacra.

Questo significa pensare a intelligenze territoriali, situate, plurali, interdipendenti. Significa riconoscere che i dati non sono risorse ma riti. Che ogni database è anche una liturgia. E che l’AI non è uno strumento neutro ma una chiesa apocrifa, con i suoi dogmi, i suoi santi, le sue dannazioni.

Il libro non propone un’alternativa. Ma apre una fenditura. Fa vedere che un’altra ecologia, non naturalista, ma teologica, è possibile. E che forse il gesto veramente rivoluzionario non è innovare, ma interrompere. Fermare il treno, come dice una delle immagini più potenti del testo. Perché se l’inferno è un sistema operativo che funziona troppo bene, la grazia potrebbe essere l’errore.

Non abbiamo bisogno di una nuova religione. Né di una nuova fede. Forse non abbiamo nemmeno più bisogno di credere. Ma di praticare. Di attraversare insieme ciò che resta. Di nominare con gesti e silenzi le cose che contano, prima che vengano catturate, processate, rese commerciabili. In questo senso, i dati non sono oro né petrolio: sono segni. E ogni segno, se condiviso con rispetto, può diventare rito. Ma solo se ci ricordiamo che non c’è nulla di sacro nella tecnica, è il modo in cui la abitiamo, insieme, che può restituire senso a ciò che sembrava perduto.

Non serve un altare per riconoscere che siamo già in ginocchio. Serve solo decidere se inginocchiarsi per paura o per cura. E forse è da lì che si ricomincia. Dal modo in cui guardiamo chi ci cammina accanto, dal modo in cui ascoltiamo il peso di un dato, il battito di un silenzio, la ferita che ogni algoritmo dimentica.
Una nuova ecclesiologia non religiosa non ha santi né dottrine. Ma ha corpo. E ha tempo.
E forse, se impariamo a riconoscerli,ha ancora una chance di salvarci dal nulla. Non da qualcosa. Dentro.

 

Immagine: William Blake (British, 1757–1827) The Great Red Dragon and the Woman Clothed with the Suna, 1803–1805 – Brooklyn Museum, Visione apocalittica e corporea, dove il mostruoso è sistema e il sacro è vulnerabilità. Non una fede, ma una visione