Gaza è il codice sorgente

Viviamo in un tempo in cui il dominio non si presenta più sotto forma di imposizione, ma di infrastruttura. Il potere non si dichiara: si scarica, si integra, si installa. Non dice più “comanda”, ma “ottimizza”. Non promette libertà, ma sicurezza. Non costruisce consenso, ma accetta adesione passiva. E mentre i cieli si riempiono di droni, i confini si automatizzano, la memoria si carica su cloud sovrani e il pensiero si comprime in protocolli, ci raccontano che tutto è inevitabile. Che la complessità è troppo grande per essere governata. È in questa teologia dell’inevitabile che si gioca il passaggio epocale: dalla politica alla previsione, dalla decisione collettiva all’output generato. E intanto, nel cuore dei territori più oppressi, come Gaza o ai confini tra Russia e Ucraina ma anche in Congo, si sperimentano i modelli, si addestrano le AI, si fabbricano le versioni computazionali del futuro. Ma non è un futuro per tutti. È un futuro addestrato alla guerra, pensato per pochi, somministrato come fine della storia. È un futuro in outsourcing, prodotto da chi possiede i mezzi del calcolo e venduto a chi controlla i territori. E se non lo disinneschiamo, sarà anche la fine della nostra capacità di immaginarne uno diverso.

Un nuovo dio non abita nei cieli. È nei data center. Nelle zone franche della giurisdizione. Nei cavi sottomarini che attraversano gli oceani. Nelle alleanze inespugnabili tra governi, eserciti e piattaforme. Non ha volto, ma risponde al nome di algoritmo. Non giudica: calcola. Non punisce: predice. Non salva: normalizza. Ha una teologia algoritmica che esclude la misericordia e un dogma numerico che rifiuta l’ambiguità.

Il rapporto UN di Francesca Albanese non lo dice così, ma lo lascia intendere in filigrana: Gaza è solo la superficie. Sotto, si muove un sistema tecno-teologico che ha smesso di distinguere tra dominio informatico e dominio militare. Un sistema che ha trasformato la guerra in servizio cloud. La soglia del diritto è stata sostituita da un log threshold: un calcolo interno all’algoritmo che decide chi passa, chi resta, chi viene cancellato. Non si decide più chi vive o chi muore: si seleziona, si filtra, si pulisce il database.

Secondo il rapporto UN di Albanese, Amazon e Google, attraverso il progetto Nimbus firmato nel 2021, vendono calcolo sovrano a Israele per oltre 1,2 miliardi di dollari. Palantir fornisce predizione e targetizzazione. NSO Group offre penetrazione. Oracle e altre infrastrutture chiudono l’ecosistema. L’occupazione non è più solo una scelta politica: è un flusso di dati orchestrato da modelli predittivi. Il colono è un utente, il checkpoint un’interfaccia e la Palestina un’anomalia da correggere. Gaza è diventata un laboratorio per la governance algoritmica, dove l’umanità viene riscritta come parametro e l’esistenza come dato deviante da neutralizzare.

Ma il punto è più radicale: non siamo di fronte a una “deriva” della tecnologia. Siamo di fronte al suo compimento. Peter Thiel, che non è solo un miliardario, ma un teologo del dominio, l’ha sempre saputo: l’AI non serve a capire il mondo. Serve a governarlo. Non esiste un’AI buona se resta nelle mani di chi possiede la capacità di sorvegliare tutto e rendere invisibile la propria sovranità. Non è la tecnologia a essere sbagliata: è l’architettura del potere che la innerva a renderla strumento di dominio.

In un’intervista del New York Times rilasciata il 26 giugno 2025, Thiel conferma la sua visione nichilista: l’AI è “più di un nothing-burger” ma “meno della trasformazione totale della nostra società”. Ritiene che siamo inchiodati a una stagnazione tecnologica cronica, dove la vera svolta richiederebbe missioni su Marte o cure per l’Alzheimer. Sul versante spirituale, Thiel evoca l’Anticristo come archetipo del potere che conquista il mondo parlando incessantemente di Armageddon, senza essere mai sfidato. Nel suo ragionamento, il sovrano futuro non arriverà con violenza, ma con un flusso tanto continuo di paura da normalizzare regimi autoritari digitali. Thiel insinua: siamo già su quel percorso, armati non solo di bombe, ma di algoritmi. Non con la propaganda, ma con il prediction score.

Quando Thiel evoca l’Anticristo e l’Armageddon, non lo fa da teologo, ma da stratega. Eppure attinge con precisione chirurgica all’immaginario biblico, non per celebrarlo, ma per rovesciarlo. L’Anticristo, nella sua lettura, non è una figura demoniaca che si impone con la violenza, ma un potere che conquista il mondo raccontando senza sosta la fine. Il dominio perfetto non ha bisogno di censura o catene, ma solo di una narrativa perpetua dell’eccezione. Armageddon non è più la battaglia finale, ma il nome in codice della gestione algoritmica della crisi: l’anticipazione computazionale del caos per giustificare controllo assoluto. Così, le figure escatologiche del testo sacro si rovesciano in strumenti di governo digitale. La collina di Megiddo diventa un server. L’anticristo indossa un badge aziendale. E il tempo non si apre alla salvezza, ma si chiude nell’inferenza statistica. Non è più religione: è una teologia rovesciata, dove la fine del mondo è sempre imminente, ma sempre rinviata. E nel frattempo, tutto può essere giustificato; Oogni emergenza è un’opportunità di espansione, ogni errore un miglioramento del modello, ogni vita una riga di log.

La narrazione della fine non è un errore del sistema. È il suo carburante. Le piattaforme di potere computazionale, che si tratti di governi, aziende o think tank armati, non funzionano più con l’ideologia della promessa, ma con l’ossessione dell’irreparabile. È sempre troppo tardi, sempre troppo pericoloso, sempre necessario intervenire ora. L’AI, in questo schema, non è strumento di razionalità, ma dispositivo di anticipazione: prevede crimini prima che accadano, segnala “comportamenti sospetti”, calcola scenari di collasso. Ma ogni previsione è anche una profezia che si autoavvera. Più il sistema dice che il caos è alle porte, più ottiene il potere per prevenirlo. Più promette salvezza, più costruisce sorveglianza. È la religione dell’inevitabile: tutto doveva andare così, e il modello lo sapeva già. È qui che la governance computazionale si fa totalitaria, non nei mezzi, ma nei fini. Non perché reprime, ma perché convince che non c’è alternativa. Né politica, né storica, né umana. E nella paralisi della possibilità, ogni algoritmo diventa oracolo, ogni discussione intorno a esso un rituale vuoto.

Il caos non è più il fallimento della politica, ma la sua forma dominante. Guerre a bassa intensità e alta durata, collassi finanziari resi sistemici, crisi migratorie cicliche, emergenze climatiche convertite in algoritmi di rischio: ogni frammentazione viene assorbita dentro una narrativa che giustifica l’accentramento. Anche l’Unione Europea, che avrebbe potuto essere laboratorio di federazione democratica, si è piegata a questo ritmo. Oggi non promette futuro: gestisce eccezioni. Non costruisce coesione: produce compliance. I suoi atti normativi sono risposte a shock, non visioni condivise. Il Green Deal si trasforma in dashboard. Il PNRR in scoring. E se l’AI, come dice Thiel, è lo strumento per dominare il mondo senza dichiarare guerra, allora ogni pezzo di caos diventa utile: serve a sospendere la politica, a rinviare il conflitto sociale, a imporre protocolli. Si governa meglio nel panico. Si legifera meglio nel vuoto. E in fondo, si convince meglio un continente che la storia è finita se lo si costringe a vivere in uno stato di fine imminente. La tecnocrazia si traveste da salvezza, ma agisce come un algoritmo di contenimento. E in quel contenimento, tutto ciò che non si conforma, corpi, territori, comunità, desideri, diventa rumore da silenziare.

Il progetto Nimbus è un battesimo. Una consacrazione. La “sovranità digitale” di Israele è un prototipo per tutte le tecnocrazie armate del XXI secolo: calcolo nazionale, immunità giuridica, controllo semantico del reale. Chi vive sotto quella nuvola non ha più alcun diritto. Viene computato, selezionato, eliminato.

Il futuro non è più tra libertà e sicurezza. È tra chi addestra i modelli e chi ne subisce le inferenze. Tra chi scrive le regole di labeling e chi ne viene marchiato. La guerra non è “assisted by AI”. È AI. Gaza è il primo luogo dove questo paradigma è diventato pienamente operativo. E se prima di ogni codice, prima di ogni modello, Gaza è una tragedia umana. E questa tragedia non va oscurata da nessuna analisi, per quanto sofisticata. È la radice di tutto. Ma proprio per questo, Gaza ci riguarda anche altrove. Ovunque le smart city si interfacciano con polizia predittiva, dove i confini vengono automatizzati, dove le scuole, gli ospedali, le università vengono inseriti nei database di sorveglianza, Gaza è presente. Gaza è il codice sorgente di una nuova forma di governo.

L’alternativa? Non è “più etica” nella tecnologia. È un’altra tecnologia, un’altra architettura. Costruita non per classificare, ma per custodire. Non per dominare, ma per convivere,non per predire, ma per comprendere. Per dare spazio al dubbio, all’errore, all’anomalia come ricchezza, non come minaccia.

Significa togliere i dati dalle mani degli imperi, e restituirli alle comunità che li generano. Costruire AI territoriali, addestrate non sulla logica dell’efficienza, ma sul ritmo delle relazioni. Intelligenze non artificiali, ma ecologiche. Sovrane non perché nazionali, ma perché comuni. Rallentare il calcolo, rinegoziare i protocolli, progettare server lenti, che ascoltino prima di decidere. Sistemi che non prevedano, ma ricordino, tecnologie che non rispondano, ma pongano domande.

Disobbedire alle infrastrutture del dominio non è solo un gesto simbolico. È un’azione costituente; è la possibilità concreta di riscrivere il futuro, non nei codici di chi governa il mondo dall’alto, ma nei margini di chi lo abita dal basso. Nei territori, nelle alleanze lente, nei saperi incarnati. L’AI può essere anche questo: una pratica di restituzione. Il cloud va smontato prima che diventi il nostro unico cielo.

Immagine: “Il Trionfo della Morte” – Pieter Bruegel il Vecchio (1562). Rappresenta la fine del mondo come sistema: un mondo devastato, governato da forze impersonali e inarrestabili.