Elon Musk, ancora lui, ha annunciato la nascita di un nuovo partito politico: si chiama America Party, ma non ha nulla a che vedere con ciò che, in passato, abbiamo chiamato “partito”. Non è l’ennesima sigla elettorale, ma l’esplicitazione di un processo già in atto: la trasformazione delle piattaforme in soggetti sovrani, capaci non solo di orientare la realtà, ma ora anche di rappresentarla formalmente.
Se nel mio precedente articolo mi chiedevo se Musk volesse sostituire Trump, oggi la domanda ha questo seguito. La mossa è più radicale: sostituire la forma partito con la forma piattaforma. Non una base territoriale, non sezioni locali, non militanza. Ma una rete già esistente di utenti, follower, fedeli e algoritmi, attivabile all’istante. Questo non è un esperimento politico. È un deploy. Un aggiornamento di sistema. Non è la fase di scrittura del codice, ma il momento in cui tutto viene reso attivo, visibile, funzionante nel mondo reale.
Musk non fonda un partito per il potere: formalizza il potere già posseduto. La differenza è sostanziale. Il suo elettorato esiste prima dell’adesione, prima del programma, prima del voto. È composto da persone che già si informano tramite i suoi canali, lavorano sulle sue piattaforme, viaggiano con le sue tecnologie. L’America Party è il passaggio da potere “soft” a potere normativo. Il vero punto non è se avrà successo elettorale. La domanda è: quanti voti servono a un’infrastruttura per diventare istituzione? La risposta è: molto meno di quanti servano a una democrazia per sopravvivere a se stessa. Il sistema bipartitico americano è in crisi da tempo. Ma ciò che avanza non è un’alternativa pluralista: è una nuova concentrazione di potere, tecnicamente distribuita ma politicamente accentrata. Il partito di Musk non è un corpo intermedio tra società e istituzioni: è l’immediata traduzione dell’infrastruttura in autorità.
C’è un dettaglio che merita attenzione. Musk, che avrebbe le risorse, le tecnologie e le reti per dar vita a una struttura radicalmente nuova, una DAO, Organizzazioni Autonome Decentralizzate basate su blockchain, una governance algoritmica, un protocollo decisionale basato su smart contract e voto distribuito, sceglie invece un partito. Invece di costruire una DAO, una forma, tra le tante, davvero nuova e tecnologica di governance collettiva, Musk sceglie qualcosa di molto più riconoscibile e collaudato: un partito personale, centralizzato, con il carisma al posto della base, l’algoritmo al posto delle sezioni. Non una rete distribuita, ma una macchina elettorale ibrida, con l’estetica dell’innovazione e la logica del controllo verticale. Da un lato, scegliere la forma partito è un modo per legittimarsi all’interno del linguaggio istituzionale. Come dire: gioco secondo le vostre regole, ma sono già oltre. È mimetismo funzionale. Entra nel sistema per mostrare che non serve più. Dall’altro, la democrazia, per quanto debole, affaticata, lenta, è ancora oggi il linguaggio obbligato della sovranità. Nessuno è pronto a votare una DAO. Nessun tribunale accetta un algoritmo come rappresentante. Musk questo lo sa: per sostituire la democrazia, prima deve simularla. Il partito, in questo senso, è una tappa intermedia. Una scorciatoia simbolica. Non fonda un’istituzione per servire il popolo, ma per misurare quanti sono già servitori dell’infrastruttura. Ma c’è anche un’altra possibilità. Forse anche uno dei più potenti tra gli innovatori sa che senza l’investitura della forma politica, il potere resta potenza. E che una DAO, oggi, è ancora troppo incomprensibile, troppo fragile, troppo anonima per sfidare direttamente le istituzioni territoriali.
E allora ecco il partito: non perché è nuovo, ma perché è ancora riconoscibile. Un vecchio guscio, per contenere un nuovo ordine. Ecco il rischio più grande: la democrazia come interfaccia, non come processo. Ma è proprio questa la posta in gioco: se la politica si riduce a customer experience, se la partecipazione si misura in click e visibilità algoritmica, allora la democrazia può essere emulata senza essere esercitata. Il punto è che l’America Party, così come viene presentato, non è affatto il primo passo verso la politica, ma semmai un gesto simbolico di normalizzazione di un potere già in atto, che non ha bisogno di un partito per funzionare perché possiede strumenti di governo ben più potenti di qualsiasi forma-partito tradizionale. Musk non controlla solo aziende, ma interi strati infrastrutturali della nostra contemporaneità, governa reti neurali attraverso xAI, raccoglie e processa miliardi di dati attraverso le sue piattaforme, dispone della costellazione satellitare privata più estesa del pianeta, con Starlink garantisce connettività a bassa latenza in ogni angolo del mondo bypassando Stati, telecomunicazioni e confini, è in grado di mappare attività climatiche, logistiche, energetiche, biometriche, e mentre gli Stati faticano a regolare le loro reti ospedaliere o a proteggere i dati scolastici dei minori, lui dispone di una capacità di sorveglianza e analisi su scala globale che nessuna istituzione democratica può eguagliare. Immaginare un partito in questo contesto significa allora spostare radicalmente la domanda: non più cosa propone, ma cosa può fare, non con quali valori si presenta, ma con quali risorse è in grado di trasformare direttamente la realtà. Non è un partito nel senso classico, ma un aggregatore di potere cognitivo, tecnico e sociale capace di orchestrare attenzione, emozione, accesso, infrastruttura e connessione, senza passare per nessuna delle tradizionali forme di mediazione istituzionale; è una rete che sa già tutto su chi lo sostiene prima ancora che venga il momento di votare, che può modellare il desiderio collettivo a partire dalle sue stesse architetture di raccomandazione, che può testare messaggi, polarizzare temi, distribuire narrative e predire comportamenti su scala planetaria; è un partito che non ha bisogno di sezioni, perché ogni dispositivo che usiamo ne è già una cellula attiva, ogni sensore un interlocutore, ogni contratto un’interfaccia di consenso implicito. Il vero superprower non è quello di convincere, ma di costruire direttamente gli ambienti dentro cui certe convinzioni emergono come inevitabili; e allora l’America Party non è un partito: è il nome che diamo a un nuovo tipo di sovranità computazionale che non chiede più di rappresentare i cittadini, ma di calcolare i comportamenti, distribuirli in tempo reale, e reindirizzarli ogni volta che si discostano troppo dalla curva prevista.
Trump lo si può battere alle urne. Musk no, perché non compete alle stesse condizioni. Il suo partito non si gioca sul terreno elettorale, ma su quello cognitivo, infrastrutturale, culturale. E finché continueremo a leggerlo come un soggetto politico tradizionale, perderemo di vista la trasformazione in corso: non è la nascita di un nuovo attore, ma il trasferimento del potere da territori democratici a strutture private meta-territoriali.
C’è infine una dimensione umana e caratteriale che non può essere esclusa da un’analisi di questa vicenda. Elon Musk non è soltanto l’imprenditore visionario che ha rivoluzionato settori industriali interi, né un semplice protagonista della scena mediatica globale. È anche, per sua stessa ammissione, una persona neurodivergente, con tratti autistici che in parte spiegano, ma non giustificano, una modalità relazionale e comunicativa spesso impermeabile al dissenso, distante dalle complessità del confronto democratico, incapace di tollerare la lentezza, l’ambiguità, l’imprevisto.
Questa impostazione profondamente ingegneristica del mondo, dove ogni problema è una variabile da risolvere e ogni resistenza un errore di sistema, può produrre innovazione quando si progetta un vettore interplanetario, un chip neurale o una fabbrica automatizzata. Ma diventa fragile, persino pericolosa, quando pretende di essere estesa al governo delle società, dove i codici non sono binari, ma culturali, emotivi, storici, e la legittimazione del potere non nasce dall’efficienza, ma dal riconoscimento reciproco.
L’America Party, in questo senso, potrebbe non essere altro che l’ennesima espressione di una volontà estrema, forse narcisistica, di imprimere una forma al caos, una risposta univoca a un sistema frammentato, un disegno personale al vuoto lasciato dalla politica tradizionale. E se a muoverlo non è il desiderio di dominio, ma la solitudine di chi osserva il mondo da un’orbita altra, il risultato non cambia: si rischia di affidare la rappresentanza democratica non a un’istanza collettiva, ma a un monologo verticale, inaccessibile, in grado di parlare a milioni di persone senza mai ascoltarne realmente una. Non basta dichiararsi diversi da Trump per essere altro. E non basta invocare la razionalità per essere giusti. Perché tra la visione e la fuga, tra la leadership e l’egocentrismo, il confine è spesso più sottile di quanto crediamo.
Tutta questa analisi, così come le ipotesi sul senso dell’America Party, sul rapporto tra infrastruttura e politica, sulle derive della leadership tecnologica, non è che una forma di immaginazione critica. Una mappa provvisoria, tracciata a partire dai segnali che Musk dissemina, più o meno consapevolmente, nel dibattito pubblico. E non è l’unico, basta ascoltare l’ultima intervista del New York Times a Peter Thiel, uno dei personaggi più influenti, controversi e strategici della Silicon Valley e della politica americana contemporanea.
Forse il gesto di Musk non è che una provocazione destinata a dissolversi nel giro di qualche ciclo elettorale. O forse è l’inizio silenzioso di una trasformazione più profonda, che solo tra anni potremo nominare con chiarezza. La verità è che solo Musk, forse, sa davvero cosa ha in mente. Noi possiamo solo tentare di osservare ciò che emerge, senza cedere né all’entusiasmo né alla rassegnazione. Perché anche immaginare il futuro resta, oggi, un atto politico.
Infine la domanda: quale forma politica può opporsi a una piattaforma? E chi la costruirà? Cosa resta da fare, dunque, di fronte a un partito che è più un’interfaccia che un’organizzazione, più una funzione di sistema che un corpo sociale, più un’emanazione privata che un’istanza pubblica? Forse non opporre un’altra forma-partito, né rincorrere nuove leadership travestite da orizzontalità, ma rimettere mano all’idea stessa di infrastruttura democratica, a partire dalla terra, dalle comunità, dalle tecnologie distribuite, costruendo modelli di rappresentanza, di decisione e di valore che abbiano radici nei territori e non solo nei server, e che sappiano tenere insieme governance e relazione, competenza e conflitto. Ricostruire significa allora non solo parlare di dati, ma riappropriarsene: non come risorsa individuale o merce di scambio, ma come bene comune da governare collettivamente, attraverso strumenti nuovi che consentano ai soggetti locali, cittadini, enti, cooperative, scuole, imprese, di decidere come quei dati vengono raccolti, elaborati, messi al servizio del bene condiviso. La sfida non è solo culturale o normativa: è materiale, politica, ecologica. Perché chi controlla i dati, oggi, controlla le mappe cognitive, le proiezioni economiche, le narrazioni sociali. E se a quei dati non restituiamo radici territoriali, se non costruiamo alleanze tra persone, istituzioni, tecnologie e saperi locali, allora saremo sempre costretti a rincorrere qualcun altro, su un terreno che non abbiamo contribuito a disegnare. Non si tratta, dunque, di reagire a Musk con un altro Musk, ma di iniziare a costruire ciò che nessuna piattaforma potrà mai replicare: un’intelligenza collettiva territoriale fatta anche dalla AI, fondata sul legame tra chi abita, chi decide, chi progetta e chi custodisce. Non per nostalgia, non per idealismo, ma perché se non lo facciamo noi, lo farà qualcun altro. E quel qualcuno, quasi sempre, non ci chiederà il permesso.