Non si salvano i paesi. Servono costituzioni locali.

C’è un punto, nel nuovo PSNAI, che va letto per quello che è: un sigillo tecnico alla rinuncia politica. “Percorso di cronicizzato declino e invecchiamento”: linguaggio pulito per dire che lo Stato si sta ritirando da sé stesso, un borgo alla volta.
Nel marzo 2025 la Presidenza del Consiglio ha approvato il nuovo Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne 2021–2027. Quasi quattro mesi dopo, è stato pubblicato senza troppo clamore. Eppure in quel documento c’è scritto che molti, i più piccoli, dei circa 4.000 comuni italiani delle aree interne e che rappresentano oltre il 23% della popolazione su quasi il 60% del territorio nazionale, non sono più territori da salvare ma da accompagnare nella loro decadenza.
È il passaggio chiave: laddove prima si parlava di rilancio, oggi si pianifica il declino. E lo si fa con eleganza terminologica. Si parla di “accompagnamento”, di “realismo amministrativo”, di “gestione sostenibile dello spopolamento”. Ma il messaggio che arriva è chiaro: non contate più.
Il paradosso è che proprio dove c’è più bisogno di politica, si afferma l’amministrazione dei numeri. Indicatori di densità, soglie demografiche, chilometri dai servizi essenziali: la decisione su quali territori “possono vivere” non nasce da un’esperienza del luogo, ma dalla sua astrazione. La mappa ha vinto sul mondo, il modello ha sostituito il luogo, la rappresentazione si è divorata la realtà. È così che ci si illude di essere oggettivi mentre si compiono scelte politiche radicali.
Nel momento in cui un comune viene definito “non più strategico” per il futuro, non si sta parlando del numero dei suoi abitanti, ma della sua rimozione dalla narrazione nazionale. Quella rimozione è sempre un atto di potere, non di efficienza.
Anna Rizzo, antropologa, lo ha scritto con chiarezza in I paesi invisibili: il problema non è il romanticismo dei borghi, ma il marketing della loro agonia. Festival, bandi, storytelling da social media manager trasformano villaggi reali in showroom del desiderio urbano. Una gentrificazione al contrario, dove il capitale simbolico non si accumula, ma viene venduto come souvenir.
Allo stesso modo, Vito Teti in Quel che resta ha nominato la restanza: quella pratica radicale di chi sceglie di restare, senza nostalgia sterile ma con tensione creativa. Restare non come rinuncia, ma come cura del residuo. È lì che si gioca la politica oggi. Non a Milano o a Bruxelles, ma a Mezzano, a Elva, a Luserna, nei luoghi che sopravvivono senza essere raccontati.
Oggi, la rigenerazione dei paesi rischia di diventare l’ennesimo fenomeno passeggero. Prima il co-working nei borghi, poi gli smart village, poi i bandi da 60.000 euro per “ritornare”. Ma chi torna davvero? Con quale orizzonte? E chi resta, con quali diritti?
Non serve un nuovo ciclo di bandi “a pioggia”, né una colonizzazione digitale delle comunità rurali. Serve una visione radicalmente diversa. Non paternalismo, non compassione, ma giustizia territoriale. Non storytelling, ma politica.
Eppure, proprio in questi territori marginalizzati, che custodiscono memoria, paesaggio, saperi e biodiversità, la tecnologia potrebbe avere un ruolo preciso, se ben guidata. Non come leva di estrazione dati per modelli centralizzati, ma come strumento per aumentare le capacità di autogoverno delle comunità.
Un’intelligenza artificiale territoriale, costruita con dati raccolti localmente, sotto controllo delle stesse comunità, potrebbe: mappare dinamiche agricole, idrogeologiche, energetiche con precisione e continuità. Poi supportare filiere corte, economie mutualistiche, sistemi scolastici e sanitari distribuiti. E infine rafforzare la consapevolezza politica attraverso una nuova topologia digitale dei luoghi, fondata su relazioni e non solo su coordinate.
Questa tecnologia non sostituisce la relazione, la segue. Non impone un modello, lo apprende dal basso. E per funzionare ha bisogno di figure nuove, ibride: non tecnici del dato, ma custodi digitali che abbiano un doppio legame, con il codice e con la terra. Certo solo un piccolo inizio e molto altro si deve fare tra le relazioni, l’incontro, la reciprocità, lo scambio, il rapporto fondamentale tra la tradizione e l’innovazione, ma bisogna partire e presto.
Se lo Stato rinuncia, le comunità devono pretendere. Non un posto nei bandi, ma un diritto alla continuità esistenziale. Un diritto a immaginare, non solo a sopravvivere. Servono nuove costituzioni locali. Perché un paese non è un brand o dei dati amministrativi. È un patto. E un patto, se non è mantenuto, prima o poi si rompe.
Alla fine resta una questione concreta: cosa significa, davvero, salvare un paese?
Non bastano bandi, incentivi o etichette strategiche. Non si tratta di far tornare persone o aprire coworking. Si tratta di garantire condizioni di continuità, strumenti per restare senza dipendere, spazi di decisione reale. Anche la tecnologia può servire. Ma solo se è radicata nei luoghi, se restituisce capacità e non sottrae potere. Se è costruita con chi vive quei territori, non su di loro. Non servono modelli perfetti. Serve riconoscere che esistono modi diversi di abitare, e che non tutti devono essere ricondotti a parametri di efficienza. Tutto qui. Ma non è poco.
Immagine: Lucania ’61”, di Carlo Levi un’opera complessa e corale, che racconta il Sud interno come spazio di memoria, resistenza, visione. Non è nostalgico: è politico. Palazzo Lanfranchi,  Matera.