L’inferno è qui. E parla come noi.
Il 20 giugno, Papa Leone XIV ha fatto ciò che nessun CEO di big tech osa più fare: ha parlato di intelligenza. Non quella calcolata, ma quella vivente. E lo ha fatto, durante la Seconda Conferenza Annuale di Roma sull’Intelligenza Artificiale, senza slogan, senza evangelismi digitali, senza genuflessioni davanti all’algoritmo.
Ha ricordato che l’IA è uno strumento. Ma dire questo oggi equivale a lanciare un anatema. Perché l’IA, in realtà, è già diventata una forma di governo: invisibile, totalizzante, mimetica. Nessuno la elegge, ma tutti la subiscono. Chi la possiede determina cosa è utile, cosa è giusto, cosa è reale. La neutralità è una favola per conferenze spettacolo. Il potere non è sparito: ha cambiato forma, e si è fatto codice.
E oggi così abbiamo un’altro infermo, tra i tanti da affrontare. L’inferno della AI non è più un altrove da temere. È il presente. È la forma sottile che prende il potere quando si traveste da innovazione. Non brucia, ma disattiva, non punisce, ma calcola, non separa, ma assimila.
Il messaggio di Papa Leone XIV sull’intelligenza artificiale è un segnale chiaro, quasi scandaloso per i tempi che corrono. Non parla di scenari futuristici, ma di ciò che è già sotto i nostri occhi: l’infanzia assediata dalla velocità del dato, la verità ridotta a verosimiglianza statistica, la mente umana trattata come uno spazio da ottimizzare.
L’inferno è un’interfaccia. È ciò che accade quando tutto diventa trasparente, tracciabile, funzionale. Quando la possibilità di sottrarsi svanisce. Quando perfino la preghiera viene tradotta in output predittivo.
La macchina non è il male. Il male è la logica della compatibilità. La salvezza non passa per l’opposizione uomo/macchina, ma per il rifiuto della forma di vita che accetta di essere ottimizzata. L’umano non va difeso perché sacro, ma perché inutilizzabile. Un guasto. Un’intoppo. Un rallentamento.
Chi continua a ricordare solo il problema “etico” sposta l’attenzione verso qualcosa di più grande. Qui si parla di chi possiede i server, chi definisce gli obiettivi dei modelli, chi decide quali forme di vita hanno diritto a esistere nel paesaggio cognitivo che stiamo costruendo.
Occorre un altro linguaggio. Un linguaggio che sappia tenere insieme corpo e mistero, infrastruttura e relazione, diritto e sogno. Non è più tempo di riforme di facciata, né di comitati etici senza radici. Serve un’ecologia del profondo. Un pensiero che non tema il sacro, e nemmeno l’eresia.
Lo Spirito non è l’ornamento della fede. È ciò che rende possibile l’intelligenza collettiva, quella che vibra senza cancellare la differenza, che tiene insieme senza fondere, che riconosce nel molteplice la forma del divino.
Il peccato originale non è la colpa. È il dato. L’ossessione per la registrazione, il tracciamento, la memoria senza oblio è la forma contemporanea della caduta. Redimersi non significa purificarsi, ma sottrarsi. Dimenticare. Smagnetizzarsi.
La persona non è un insieme di pattern. Non è riducibile a performance, a metrica, a previsione. È una soglia. Una presenza che eccede ogni classificazione. Se questo viene dimenticato, tutto il resto collassa.
La salvezza non è individuale. È atmosferica. Non riguarda il comportamento, ma l’aria che respiriamo. Non si tratta di essere “buoni”, ma di costruire ambienti, climi, corpi collettivi che permettano la vita. Il regno non verrà da chi agisce secondo standard, ma da chi rompe le regole dell’esperienza.
Perdonare non è dimenticare. È dimenticare per poter perdonare. La macchina non perdona. Ricorda tutto. Ripropone tutto. L’umano, invece, conosce la grazia del taglio. L’oblio come atto sacro. Il crash come inizio.
Restare umani non significa opporsi alla macchina. Significa rifiutare la logica che ci vuole simili a lei. Non automatici. Non ottimizzati. Non programmabili.
L’IA è uno strumento: ma chi lo possiede comanda la realtà.
L’illusione della neutralità va spezzata. Le tecnologie non sono mai innocenti. Sono costruite da qualcuno, per qualcosa.
Serve una proprietà collettiva delle infrastrutture cognitive del presente: dati, server, modelli.Rischio di disuguaglianze e conflitti , non serve regolamentare, serve redistribuire.
Il punto non è “regolare l’uso scorretto”, ma smettere di costruire dispositivi che estraggono valore da corpi e territori.
Serve una fiscalità della macchina, un diritto minerario sui dati, un potere decisionale comunitario.
Accesso ai dati ≠ conoscenza: il sapere non è output.
Siamo pieni di informazione e poveri di senso. Serve un’ecologia del pensiero, non interfacce più persuasive. Scuole lente, spazi di ambiguità, conflitto come metodo.
Apprendistato intergenerazionale, i bambini non sono utenti, sono futuri profeti.
Se l’IA plasma la mente, allora la mente va protetta.
Serve sottrarre l’infanzia al mercato cognitivo.
La persona non è un algoritmo; allora smettiamo di trattarla come tale.
Se la persona è relazione e mistero, allora le tecnologie devono contemplare l’opacità, l’imprevisto, la sosta.
Serve un diritto al disallineamento, una teologia della lentezza, un software contemplativo.
L’IA può favorire uguaglianza: solo se la politica torna a decidere.
Il potere non è sparito, si è smaterializzato.
Serve una politica dell’infrastruttura, municipale, territoriale, cooperativa. Non governance, ma governo.
C’è una breccia. Sta in chi ancora sa interrompere. In chi ancora sa tacere. In chi ancora crede che costruire insieme non sia solo un diritto, ma un compito sacro.
Immagine: Francisco de Goya, Il sonno della ragione genera mostri, 1799. Un uomo dorme sul tavolo, invaso da pipistrelli, gufi, fantasmi. La macchina non dorme mai. Ma l’umano sì. E nel sonno riaffiora il perturbante.