La colonizzazione non ha mai smesso di parlare la lingua di una presunta efficenza. Ha solo cambiato lessico: prima le armi, poi il credito, oggi i dati. Non è più il soldato che entra nel villaggio, è l’algoritmo che assegna un punteggio.
L’Africa torna sotto giudizio, non in tribunale, ma nei circoli del capitale globale. Ancora una volta, chi decide il valore di un continente sono soggetti esterni, agenzie di rating con sede a New York o Londra, che leggono le economie africane con modelli costruiti altrove, su premesse altrui, con dati parziali. Fitch, Moody’s, S&P: i tre nomi del vecchio oracolo finanziario che assegna stelle e condanne.
Quando Afreximbank, la principale istituzione finanziaria multilaterale panafricana, fondata nel 1993 a seguito di un accordo tra paesi africani e privati africani e non africani, con sede a Il Cairo, è stata declassata, la risposta africana è stata immediata e netta. Non tanto per il voto in sé, quanto per la metodologia: giudizi formulati su economie non bancarizzate, sistemi istituzionali locali, prestiti tra Stati africani trattati come se fossero junk bonds. Il reale africano viene costantemente piegato al parametro americano.
Nasce allora AfCRA, l’African Credit Rating Agency. Un tentativo di riscatto, certo, ma che rischia di rimanere intrappolato tra due fuochi: da un lato la diffidenza dei mercati, dall’altro la tentazione del rating “fai-da-te” che potrebbe minare la credibilità internazionale. Perché il punto è questo: a chi appartiene il giudizio? Chi ha il potere di stabilire cosa è rischioso e cosa no?
Domanda retorica. La risposta è sempre la stessa: chi possiede i dati. E chi possiede l’infrastruttura per leggerli. Oggi sono tre agenzie americane, domani saranno magari server cinesi, dopodomani intelligenze artificiali costruite su dataset che escludono sistematicamente il Sud Globale e probabilmente gran parte dell’Occidente. Cambia il mezzo, non il fine.
Mentre l’Europa ancora si contorce attorno al proprio rating come uno scolaretto sgridato, l’Africa ha scelto di smascherare apertamente il meccanismo coloniale delle valutazioni. Non si è limitata a protestare: ha progettato una risposta. E nel farlo, ha compreso con lucidità che il problema non è solo economico, ma epistemico. Chi stabilisce il rischio, decide il destino.
La verità è che gli africani hanno visto prima quello che gli europei si rifiutavano di ammettere: che le agenzie di rating sono strumenti di potere geopolitico camuffati da tecnocrazia. Che i numeri possono uccidere più lentamente delle pallottole, ma con maggiore efficacia. E che la dipendenza dai modelli di altri significa restare per sempre leggibili solo attraverso categorie che non ci appartengono.
È per questo che l’iniziativa AfCRA, pur con i suoi limiti, è un gesto politico radicale. Una dichiarazione di indipendenza informativa. L’Europa, che ha tutte le risorse e le intelligenze per fare lo stesso, continua invece a piegarsi al giudizio altrui, fingendo che sia oggettivo. Ma oggettivo non è nulla, quando i dati sono parziali e gli algoritmi sono ciechi alla realtà.
Nel cuore della questione c’è l’intelligenza artificiale: addestrata su dati occidentali, su metriche anglosassoni, su modelli lineari, continua a replicare lo stesso sguardo estrattivo. Un algoritmo non è neutro: è uno specchio opaco delle intenzioni di chi lo scrive. E se il mondo viene letto da AI addestrate su un solo pezzo di mondo, tutto il resto sarà sempre giudicato “non conforme”, “non affidabile”, “non performante”.
Non basta però creare agenzie alternative, se i dati e gli strumenti rimangono nelle mani sbagliate. Non si tratta solo di fondare una AfCRA. Si tratta di immaginare una AI africana, costruita con logiche comunitarie, su dati controllati localmente, con metriche che riconoscono la complessità e le specificità dei territori. Una AI che non colonizzi, ma custodisca.
Il Sud Globale non ha bisogno di rating: ha bisogno di potere epistemico; di potersi auto-narrare, auto-leggere, auto-giudicare. Di decolonizzare la tecnologia, anche l’algoritmo.
Immagine: “Modern Art: The Root of African Savages” – Meleko Mokgosi. Tela testuale dove Mokgosi riproduce in modo satirico didascalie da musei e libri d’arte occidentali, commentandole con annotazioni in Setswana per evidenziare i pregiudizi coloniali