I chip della AI creano una post-geografica

Nel 2025, una società cinese, con il viaggio di 4 ingegneri, ha spedito fisicamente dischi rigidi contenenti dati in Malesia, affittato potenza di calcolo su server Nvidia attraverso una sussidiaria registrata a Kuala Lumpur, addestrato un modello di intelligenza artificiale su suolo straniero e riportato in patria il risultato. Nessun chip ha attraversato i confini. Nessuna esportazione vietata. Solo strategia. Questo episodio, raccontato dal Wall Street Journal, non è un’anomalia. È una fotografia esatta del modo in cui si costruisce oggi il potere computazionale globale.

L’apparente efficacia dei blocchi statunitensi contro l’esportazione di chip AI verso la Cina si infrange contro la realtà di una rete distribuita, opaca e intercontinentale. I modelli di intelligenza artificiale non hanno bisogno di hardware nazionale per essere sviluppati. Serve piuttosto una strategia di logistica cognitiva, fatta di dati portati fisicamente fuori confine, leasing temporanei di potenza di calcolo e un’economia grigia che non è clandestina, ma legittimata da vuoti normativi e interstizi geopolitici. Le aziende cinesi, sotto embargo diretto, non importano più i chip: trasportano i dati in Malesia, li addestrano su server Nvidia affittati da affiliate locali, e riportano a casa il modello finito. È un’economia dell’addestramento delocalizzato, che sposta il valore dalle macchine ai processi, dalla proprietà al controllo temporaneo dell’infrastruttura.

Non si tratta solo di aggirare le regole statunitensi, ma di riscrivere i confini stessi del concetto di sovranità digitale. La partita sui chip ha rivelato la debolezza di ogni politica fondata su barriere doganali in un contesto in cui il vero potere non è più nei dispositivi, ma nella capacità di accedere, da remoto o per interposta persona, alla potenza di calcolo necessaria a trasformare dati grezzi in modelli predittivi. L’illusione che basti vietare la vendita diretta a una nazione per contenerne l’avanzamento tecnologico mostra tutta la sua fragilità quando i flussi di informazioni, competenze e capitali sono distribuiti su reti transnazionali, spesso ben più agili delle normative che vorrebbero imbrigliarle.

A rendere questo scenario ancora più evidente è il fatto che i data center affittati in Malesia, Singapore e nel Golfo Persico stanno diventando non solo nodi tecnici, ma snodi geopolitici. La Malesia ha importato nei soli primi mesi del 2025 più chip da Taiwan di quanti ne abbia ricevuti in tutto l’anno precedente. E se da un lato le aziende statunitensi come Nvidia dichiarano di garantire “standard americani” anche in ambienti offshore, dall’altro consentono a soggetti cinesi di ottenere ciò che la legge americana formalmente proibisce: modelli addestrati con tecnologia USA, ma fuori dalla giurisdizione americana.

Questo non è un caso isolato. È lo stesso metodo che la Cina ha applicato in Africa per oltre un decennio: costruendo reti infrastrutturali, strade, porti, reti 5G, sistemi elettrici, sotto forma di investimenti strategici, ha consolidato un controllo di fatto senza bisogno di occupazione diretta. Oggi il paradigma si ripete: non si tratta più di scavare strade, ma di scavare tunnel cognitivi, vie parallele per far circolare dati, algoritmi, modelli, conoscenza computazionale.

Quello che manca in tutto questo è un ripensamento della governance dell’intelligenza artificiale non in termini solo tecnologici o commerciali, ma strutturali. Chi controlla davvero l’addestramento dei modelli? Chi verifica i passaggi di dati tra continenti, chi definisce i limiti etici e politici dell’accesso a infrastrutture strategiche? E, soprattutto, che strumenti ha oggi una democrazia per garantire la trasparenza di ciò che non ha più un luogo fisso, un proprietario univoco, una filiera leggibile?

L’AI non è solo software. È potere computazionale, relazioni giuridiche, architettura finanziaria, accesso a capitali cognitivi e materiali. In questo contesto, l’Europa — che discute ancora di etica e tutele — rischia di restare schiacciata tra due visioni operative e già attive: quella statunitense, che predica la difesa degli standard ma tollera l’elusione purché resti sotto traccia, e quella cinese, che costruisce la sua resilienza strategica sull’intelligenza logistica delle reti distribuite. Chi pensa di risolvere questa sfida con un regolamento o con un divieto, non ha capito il nuovo campo di battaglia: non è il chip, è l’infrastruttura che lo rende efficace.