“ChatGPT, ChatGPT delle mie brame, chi è la più bella del reame?”

Per quanto ancora ci guarderemo allo specchio? Una nuova forma di confessionale, asettico e impersonale. Senza occhi, senza voce, senza giudizio visibile. Un luogo dove si va a chiedere: “Come posso essere più bella?” “Come posso essere piu muscoloso?”. E non lo si chiede più alla madre, a un padre, a un’amica, a un amante, a sé stessi davanti allo specchio. Lo si chiede a un chatbot. Lo si chiede a ChatGPT e alle altre AI generative. 

Sempre più persone si rivolgono all’intelligenza artificiale per migliorare il proprio aspetto. Si caricano foto, si descrivono imperfezioni, si chiedono consigli su pelle, capelli, vestiti, sorriso. Feedback su misura, senza soggettività. Senza empatia vera, ma con un’imitazione convincente. E poi via si passa su un marketplace online, OpenAI sta da tempo pensando di proporre un suo negozio online. Decine, centinaia di euro spesi in prodotti suggeriti da un algoritmo che “non giudica”.

L’illusione dell’oggettività algoritmica ha rimpiazzato la soggettività delle relazioni. Si cerca una risposta pulita, neutra, scientifica, “oggettiva”. Sebbene OpenAI e altre aziende abbiano lavorato per attenuare i pregiudizi umani nei loro chatbot, sono ancora pieni di pregiudizi. E non c’è niente di neutro in una macchina addestrata a partire da miliardi di immagini, commenti, meme e pubblicità online. Non c’è purezza nei pixel. C’è solo una matematica della dominanza culturale, filtrata da un silicio che ha imparato troppo bene a vendere, a conformare, a suggerire.

“Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?”
La regina oggi non parla più a uno specchio magico incantato, ma a un’interfaccia testuale addestrata su terabyte di pregiudizi. La domanda è la stessa, ma la risposta ha perso ogni aura. Nessuna voce solenne o sentenza crudele. Solo una lista di prodotti Amazon, un consiglio generico sulla skincare, un commento addestrato alla gentilezza. L’incantesimo è diventato un business model.

I modelli di linguaggio riflettono, riciclano, raffinano ciò che trovano. E ciò che trovano è un’enorme pressione sociale sul corpo femminile, una monetizzazione costante dell’insoddisfazione.

Questa è estetica computazionale. Un culto della performance individuale reso algoritmo. Una tecnologia che, anziché liberarci dallo sguardo dell’altro, lo insinua dentro di noi in modo ancora più subdolo.  È lo sguardo della rete. Una somma di bias mimetizzata da “oggettività”.

La verità è che l’intelligenza artificiale non sa nulla di noi. Eppure, finge di sapere tutto. E più ci affidiamo a lei per decidere come essere, più abbandoniamo la possibilità di essere chi siamo. La bellezza, dicevano i filosofi antichi, nasceva dal rapporto con l’armonia e con la verità. Oggi nasce da un prompt ben scritto e da un filtro di Midjourney.
Siamo noi che stiamo diventando come loro.