Un nuovo patto: tra Monte e Piano.

Mariano Allocco è l’assessore del Comune di Elva, 78 abitanti a 1637 metri nella provincia di Cuneo. L’assessore perchè di assessori ce n’è uno solo, lui, il Sindaco e il vice.  Ho letto la sua analisi, insieme a quella di molti altri autori,  nel libro “Alpi spina dorsale dell’Europa“, (in cui ho dato una mano con un breve capitolo), curato da Daniele Lazzeri presidente della Fondazione Nodo di Gordio.

Allocco scrive di  territori che parlano da soli e altri che devi imparare ad ascoltare. Le Alpi non alzano la voce, ma se ti fermi abbastanza a lungo da sentirle, ti rendi conto che non sono un museo a cielo aperto, né un parco da proteggere. Sono una grammatica politica. Leggendo il testo di Mariano Allocco, pubblicato sul libro nell’ambito del progetto Alavetz! a Elva, ho avuto la netta sensazione che qualcosa stia finalmente emergendo da quel lungo silenzio delle Alte Terre. Una voce che non chiede visibilità, ma rispetto. Non fondi, ma ascolto. Non progetti calati dall’alto, ma un nuovo patto: tra Monte e Piano. In un’Europa che arranca sotto il peso delle sue contraddizioni, la montagna potrebbe non essere un residuo, ma una via d’uscita.

Le Alpi, scrive Allocco, sono state nei secoli il luogo dove le culture d’Europa si sono incontrate e contaminate senza guerre. Là dove il Reno e il Danubio hanno segnato confini e conflitti, le Alpi hanno saputo ospitare e integrare: Walser, Cimbri, Mòcheni, Occitani, Slavi. Un laboratorio premoderno di convivenza che oggi viene riletto con sufficienza, come folklore, o romanticismo ecologista. Eppure è lì che bisognerebbe tornare a cercare un’idea politica viva, non nostalgica. Una visione che non oppone l’uomo all’ambiente, ma li tiene insieme, senza bisogno di retorica.

La frattura tra Monte e Piano non è solo geologica. È sociale, culturale, istituzionale. Soprattutto italiana. Mentre altrove la montagna degrada lentamente verso la valle, in Italia lo spartiacque è netto, verticale, drammatico. Un confine che separa due mondi: da un lato il verde che avanza, dall’altro la cementificazione, la densità metropolitana, l’agricoltura industriale. E in mezzo una città come Torino, che ha perso la sua identità industriale senza ancora trovarne una nuova. La città che ha attratto generazioni in fuga dalla povertà alpina, e che ora si scopre vulnerabile, periferica, quasi essa stessa marginale.

La montagna, scrive Allocco con lucidità, non ha mai conosciuto la miseria. Solo povertà, ma dignitosa, colta, con vie di fuga. Oggi la pianura è in trappola. E quella povertà è diventata disperazione. Per questo l’anello debole non è in alto, ma in basso. E per questo il Monte ha qualcosa da dire. Non come luogo da salvare, ma come attore da ascoltare. Non per tornare indietro, ma per andare avanti in un altro modo.

Il cuore della proposta è politico. Serve un nuovo patto tra Monte e Piano. Un patto tra pari, come tra due sindacati. Dove le Alte Terre non siano più viste come riserva naturale o bacino turistico, ma come depositarie di un sapere comunitario che può aiutare a ricostruire legami, forme di rappresentanza, visioni di futuro. Allocco smonta anche le categorie novecentesche: destra e sinistra non servono più a leggere le esigenze della montagna. Le etichette si sono logorate. Il bipolarismo ha perso senso. Servono nuovi strumenti per nuove geografie sociali.

Sullo sfondo c’è la “seconda rottura”: dopo l’industrializzazione, la globalizzazione. Che ha liquefatto lo Stato-nazione senza sostituirlo con nulla di democratico. Il potere si è spostato altrove: in una nuvola tecnofinanziaria che non riconosce confini né responsabilità. Nel vuoto lasciato da questa evaporazione dell’ordine, si affermano modelli di governance che non riconoscono l’altro, non lo integrano, lo cancellano. Il Piano ha abbracciato questa ideologia individualista, contrattuale, post-politica. Il Monte, invece, forse anche per la difficoltà di essere raggiunto e abitato, conserva un’idea di comunità fondata sul limite, sulla misura, sull’appartenenza. Non come nostalgia, ma come possibilità.

In questa tensione tra comunitarismo e approccio liberal si gioca il futuro del Piemonte, e più in generale dell’Europa alpina. La montagna non chiede di essere protetta, ma di essere coinvolta. Di contare. Non a parole, ma nelle istituzioni. Nelle politiche. Nella visione di insieme. Dove c’è autonomia, la democrazia resiste. Dove manca, resta solo il paternalismo.

Dalle Alpi può arrivare un modello diverso. Non una nuova ideologia, ma un metodo. Cultura e libertà: sono le due colonne portanti di quella che potremmo chiamare una democrazia montanara. Che non si basa solo su algoritmi né su piattaforme, ma sulla relazione tra persone, sulla conoscenza dei luoghi, sulla responsabilità reciproca.